Negli Stati Uniti qualcuno parla già da tempo di “rinascimento del manifatturiero”. Quello che sta accadendo è che diversi big player dell’industria americana stanno facendo marcia indietro rispetto alla corsa alla delocalizzazione delle produzioni in Paesi a “basso costo”. I casi più eclatanti sono quelli di Apple, che ha annunciato un investimento da 100 milioni di dollari per riportare la produzione di Mac in patria, e di General Electric, che dallo scorso anno ha rivitalizzato una sua controllata produttrice di elettrodomestici, tornando ad assemblare in Kentucky.
A cosa si deve questa inversione di tendenza? I motivi sono essenzialmente economici: dai salari cinesi quintuplicati in 10 anni, all’aumento del costo del petrolio che rende sempre meno convenienti i trasporti via nave. Inoltre vanno messi sul piatto i risparmi derivanti dal fatto di poter meglio controllare in Patria tutto il ciclo produttivo, dalla progettazione al prodotto finito. Mi piace ricordare che tutto questo accade in un Paese che vede il suo Presidente costantemente impegnato in prima persona nella difesa dell’industria nazionale. Anche in Italia si intravede qualche segnale di questo trend grazie ad Ikea (curioso… un’azienda straniera!) che ha deciso di spostare alcuni prodotti dal Made in China al Made in Italy alla ricerca di maggior qualità, che significa meno reclami e, di conseguenza, prodotti più convenienti, come dichiarato dall’Amministratore Delegato di Ikea Italia.
Questi avvenimenti significano una cosa sola: che anche in Paesi dove il puro costo della manodopera è certamente maggiore, nella scelta di localizzazione industriale entrano in gioco altri fattori quali un patrimonio di know how e di capacità tecniche consolidate nel corso di decenni, vantaggi logistici, efficienze derivanti dal miglior controllo del processo di produzione. Molti nostri imprenditori dediti alla corsa alla delocalizzazione dovrebbero riflettere con attenzione su tutte le implicazioni che comporta un passo di questo tipo.
Puntare sulla manifattura industriale dunque si può e si deve. Le istituzioni devono averlo ben chiaro e fare tutto il possibile affinchè ciò avvenga. Senza perdere altro tempo: si è soliti dire che quello che accade in America, dopo dieci anni si verifica anche nella vecchia Europa. In questo caso, non possiamo permetterci il lusso di aspettare tanto.
6 comments
david p says:
Dic 12, 2012
Giusto un mesetto fa, un amico imprenditore tessile mi raccontava di un primario marchio internazionale di “arredo tessile di lusso per la casa”.
Cinque anni fa avevano chiuso la produzione in Italia per andare in Turchia e ora hanno deciso di tornare in Italia affidando al mio amico la produzione. Motivo: il fornitore turco costa un po’ meno, ma non è affidabile come tempi di consegna e la qualità non è sempre omogenea. E non è il primo che sento…
Che qualcosa si stia muovendo…? Tanto di cappello comunque a questi imprenditori italiani che non hanno ceduto alle sirene e hanno resistito stoicamente con le loro fabbriche nel nostro Paese. Intendiamoci: ci sono anche quelli che avrebbero tanto voluto rimanere in Patria e non hanno potuto.
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spartaco says:
Dic 12, 2012
Se torni indietro in America magari trovi qualcuno che ti festeggia. Magari pure il Presidente. Se torni in Italia chi trovi? Monti che ti chiede il 70% di tasse, i sindacati che ti danno del padrone, la burocrazia che ti stritola e la giustizia che ti mette in croce. Lo dice uno che a produrre all’estero non c’è andato, ma forse solo perché non abbiamo una struttura idonea.
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luca p says:
Dic 12, 2012
A credere nel made in Italy e’ rimasta l’IKEA !! Siamo messi bene!!
Scherzi a parte: noi andiamo a fare il Made in Italy allEstero (vedi abbigliamento, calzature ecc) e gli svedesi vengono a fare i mobili da noi. E’ proprio vero, noi italiani siamo i primi detrattori di noi stessi…
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melchisedec says:
Dic 13, 2012
A proposito dello stabilimento di General Electric ho letto che oltre il 70% del lavoratori hanno firmato un accordo per un salario di 13,50 dollari/ora. Anche le parti sociali dovrebbero dare il loro contributo affinché chi ha spostato le produzioni all’estero trovi la voglia e la convenienza a tornare a casa. Speriamo che anche sotto questo aspetto l’America non sia avanti 10 anni!
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aureliano says:
Dic 13, 2012
13,50 USD/ora!!! Ragazzi, pensate se c’era la Fiomm a quel tavolo… che fine avrebbe fatto il tavolo!!!
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wicks says:
Dic 21, 2012
Mi aspettavo una decisione di questo genere, come ha fatto la Apple o la GE; tempo fa avevo intercettato uno studio fatto in una università americana (la Harvard se non ricordo male) che evidenziava, in breve, che la delocalizzazione ha portato sì dei vantaggi di breve termine alla singola azienda che ha delocalizzato, ma ha anche danneggiato il sistema Paese, in questo caso gli USA, per via degli impatti negativi sull’indotto e sul potere d’acquisto degli americani, generando di fatto meno ricchezza a saldo.
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