Muovere critiche fa parte del lavoro di giornalista. Accusare gli imprenditori italiani (o molti di essi) di “avere lo sguardo corto” mi pare francamente un po’ eccessivo.
Mi riferisco all’editoriale di Sergio Rizzo, che peraltro apprezzo molto nelle sue denunce sugli sprechi della casta, sul Corriere della Sera di qualche giorno fa, in merito all’ipotizzata vendita della Ducati alla tedesca Audi.
Ritengo che a chi fa impresa in Italia si possa solo fare un plauso; continuare a lavorare e produrre in un Paese in cui regna un sistema che fa di tutto per ostacolare l’imprenditorialità (dall’incertezza delle regole, alle lungaggini burocratiche, alla carenza di infrastrutture, al peso fiscale, al costo del lavoro e del denaro) richiede motivazioni molto forti che vanno al di là della semplice produzione di reddito.
Venendo al caso in questione, la visione che emerge dall’editoriale mi pare piuttosto superficiale e venata del qualunquismo di chi vuole fare sempre e comunque il “fustigatore di altrui vizi”. In estrema sintesi Rizzo si dice basito dall’indifferenza con cui i nostri imprenditori hanno accolto la notizia del passaggio in mani straniere di un gioiello del made in Italy come Ducati. Ma qui, caro Rizzo, stiamo parlando di industria! Un’industria come Ducati che produce 40.000 moto all’anno per competere con i colossi giapponesi che ne producono milioni, ha bisogno di piani industriali importanti che necessariamente richiedono fondamenta solide per affrontare gli investimenti. Non dimentichiamoci che dal 1998 Audi è proprietaria di una vicina di casa di Ducati, una certa Lamborghini (!). Dopo l’acquisizione, da azienda decotta, Lamborghini ha progressivamente aumentato fino a raddoppiare la produzione e oggi costruisce tra le più belle e performanti auto supersportive al mondo, con profitto; e non si è mai mossa da Sant’Agata Bolognese.
È opportuno poi chiarire qualche aspetto. Innanzitutto non so quanti imprenditori italiani (che possano essere importanti partner industriali per Ducati) abbiano oggi la possibilità e la voglia (per i motivi di cui sopra) di mettere sul piatto 850 milioni di euro; a tanto ammonta l’offerta dei tedeschi. In secondo luogo non stiamo parlando di un imprenditore che vende l’azienda allo straniero: da oltre 15 anni Ducati non è di proprietà di un imprenditore, ma di fondi di investimento, la cui ragion d’essere è investire e disinvestire facendo profitti. Passare da una proprietà finanziaria ad una industriale (e che industria!) può solo portare benefici a Ducati.
Si potrebbe temere forse per l’occupazione dei lavoratori? Non direi visto che anche la Fiom (non proprio l’organizzazione sindacale più morbida) saluta con favore l’affare. O forse potrebbe aleggiare lo spettro di una delocalizzazione della produzione in altri paesi? Credo che il numero uno del gruppo Volkswagen Ferdinand Piech, appassionato motociclista e ducatista, e i suoi manager sappiano molto bene che una Ducati non prodotta a Borgo Panigale avrebbe ben poco mercato.
Se dunque l’invocazione ai latitanti imprenditori italiani è finalizzata a veder correre Valentino Rossi su una moto italiana, forse è meglio abbandonare il romanticismo e pensare allo sviluppo di un glorioso marchio italiano e ai tanti lavoratori che lo hanno reso tale.

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