Quarantamila imprese chiuse e oltre trecentomila posti di lavoro persi dal 2007. Bastano questi due dati a descrivere la “più grave crisi dal dopoguerra” dell’edilizia in Italia, come è stata definita durante la “giornata della collera” dall’assemblea dell’ANCE nel febbraio scorso. Si calcola dal 2008 un calo degli investimenti nel settore del 21% ed un crollo del 37% della domanda di nuove abitazioni.

Ma come si è arrivati ad una situazione del genere, ormai difficilmente sostenibile? Bisogna partire da inizio anni ‘90, quando il settore ha intrapreso un lungo percorso di crescita durato 15 anni. La manica larga di concessioni e regolamenti edilizi ed un sistema bancario che finanziava fin troppo facilmente sia le imprese di costruzioni, sia chi voleva acquistare una casa, hanno contribuito ad un proliferare incontrollato di nuovi edifici e di mutui minati da incertezze sul rientro. Erano anni in cui chi aveva un pezzo di terra lo vendeva a buoni prezzi, si diceva, in quanto l’acquirente l’avrebbe reso facilmente edificabile; quando non intraprendeva in proprio un’iniziativa immobiliare, magari provenendo da settori completamente diversi. Si costruiva senza tener conto delle reali richieste del mercato e senza l’impellenza di vendere. Il circolo vizioso in cui erano entrate imprese e banche era: più costruisco, più aumento l’attivo patrimoniale, più le banche mi finanziano.

Questo precario equilibrio è venuto meno con la crisi, in primis finanziaria, del 2008. I numeri del rapido declino sono quelli citati all’inizio e chi è sopravvissuto oggi si trova a combattere principalmente contro tre problemi. Il primo è l’eccesso di offerta: si è costruito troppo e male; oggi si contano almeno 700.000 alloggi invenduti, a fronte di una richiesta di edilizia sociale di 580.000. Secondo: la difficoltà di accesso al credito sia per le imprese, sia per i potenziali acquirenti di abitazioni, con effetto gravemente depressivo per la domanda. Terzo: i tempi di pagamento ad una media di 180 giorni, rispetto alla media europea di 65. L’Imu ha dato il colpo di grazia: si calcola che sugli immobili dati in affitto, tenendo conto anche di tutte le altre imposte, il carico fiscale totale arrivi anche al 60% del canone!

Quali le possibili vie d’uscita? Proviamo ad indicarne qualcuna. Innanzitutto il rilancio degli investimenti in opere pubbliche: il Paese ha bisogno di infrastrutture e di lavori di ristrutturazione del patrimonio. Si pensi solo all’enorme lavoro di sistemazione e prevenzione da fare per il dissesto idrogeologico, le strade malandate, le scuole fatiscenti. La lista potrebbe essere lunghissima. In secondo luogo riportare il sistema bancario ad erogare mutui per l’acquisto della casa. Rivitalizzare le compravendite immobiliari significa creare un volano di lavoro sia di nuove costruzioni, sia di ristrutturazioni. Sul fronte dell’edilizia privata riteniamo opportuno puntare sulla riqualificazione degli edifici esistenti, magari con opportuni sgravi fiscali. Parliamo di lavori non solo di abbellimento, ma anche funzionali: solidità strutturale, messa in sicurezza secondo criteri antisismici, aumento dell’efficienza energetica con nuovi sistemi d’isolamento, per fare qualche esempio.

Mi pare che ci sia molto da fare per rimettere il comparto edile / immobiliare sulla via della crescita.  Al nuovo Esecutivo, quando l’avremo, l’arduo compito. Ricordando ciò che l’esperienza insegna: l’economia non riparte finchè non riparte l’edilizia.

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