Vicenda infinita e per molti versi inquietante. Il sistema delle “quote latte” è stato introdotto con regolamento comunitario 856/1984 del 31 marzo 1984 ed ha come scopo una regolamentazione del mercato attraverso il contingentamento delle produzioni di latte per ogni singolo Paese comunitario. Lo sforamento della quota nazionale, suddivisa in quote individuali, comporta il pagamento di penali da parte dei produttori, trattenute direttamente dagli acquirenti (latterie, caseifici) come sostituti d’imposta. Tutto questo per evitare grandi fluttuazioni al ribasso dei prezzi del latte, a danno dei produttori. E visto che il mercato libero si autoregolamenta, le fluttuazioni avrebbero impattato poi anche sul consumatore, e non sempre in meglio.

L’impianto funziona se i parametri fissati sono attendibili e il meccanismo è ben oliato. Ormai è notorio che la quota calcolata per l’Italia, fissata a 8,8 milioni di ton per il 1983, era al di sotto della reale produzione di circa 11,5 milioni. L’allora ministro dell’Agricoltura Pandolfi (primo governo Craxi) fu accusato di non essersi battuto a livello comunitario, fornendo dati statistici sottostimati. E’ pur vero che non si aveva un reale censimento dei capi e quindi della capacità produttiva potenziale. Ma fu evidente che la politica italiana, pure nella sua debolezza, preferì battersi per le ora defunte “quote acciaio” a scapito dei produttori di latte. La politica industriale degli anni ’80 fu fatta a scapito di quella agricola.

La riscossione delle multe si scontra con il lassismo e la condiscendenza. La modalità di prelievo è farraginosa e la normativa complessa e contraddittoria. Su un totale di 2,3 miliardi dovuti all’Unione Europea dai produttori fuori quota, a maggio 2012 ne erano stati riscossi soltanto 450 milioni (fonte: inchiesta della Corte dei Conti). Della parte restante, quasi interamente contestata davanti all’Autorità giudiziaria, almeno quasi 1 miliardo non è esigibile, soprattutto a causa delle sospensive giurisdizionali. Nel frattempo però la Comunità ha già trattenuto dai fondi PAC, in compensazione, gli importi non versati. E la Tesoreria statale ha sopperito a questo mancato versamento. Tanto da noi si sa come funziona: nell’indifferenza generale, il contribuente pagherà. E infatti è andata proprio così, con un onere stimato di 75 euro per ciascun cittadino italiano, conteggiando anche 1,9 miliardi versati dallo Stato per sanare il periodo 1984-1994 e condonati ai produttori.

La politica come ha giocato in tutto questo? I fatti sono noti: diverse componenti governative si sono fatte portabandiera delle istanze dei produttori di latte, soprattutto di quelli che si rifiutavano di pagare le multe. Ed hanno concesso dilazioni, fatto in modo di sottrarre il recupero ad Equitalia, elemosinato in Europa un aumento delle quote (+6% nel 2009) per poi distribuirle prioritariamente ai produttori inadempienti. Ricordiamoci che gli allevatori onesti hanno sborsato 1,85 miliardi di euro per mettersi in regola, acquistando o affittando quote latte, anche da chi aveva falsificato i dati per vedersele attribuire dolosamente.

E per il futuro? Le quote andranno in pensione nel 2015. Ci sarà libera concorrenza e il produttore italiano dovrà far valere la maggior qualità rispetto ai costi inferiori di produzione degli allevamenti del Nord Europa. Non avverrà tutto repentinamente, si sta discutendo su un percorso di graduale abbandono della logica delle quote. I nostri allevatori in 10 anni sono passati da 61.000 a 37.000 unità, con una maggior concentrazione di bovini negli allevamenti: nel 2011 il 7% degli allevamenti ha infatti prodotto il 46% del latte. L’efficienza e maggiori economie di scala dovrebbero controbilanciare la prevedibile diminuzione dei prezzi del latte dopo l’abolizione del sistema quote. Intanto vi è un arretrato di multe da recuperare, un probabile sforamento delle quota produttiva nel 2012-2013, con nuove multe a carico dell’Italia, inchieste da parte di guardia di finanza e procure. Il problema permane, nulla è risolto.

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