E’ davvero un caso emblematico, quello del settore degli elettrodomestici. Una storia su cui riflettere. Dal 2002 ad oggi (soltanto dieci anni!), la produzione nel nostro Paese crolla da 30 milioni di pezzi a 15. Le aziende italiane storiche del settore (Merloni, Candy, il distretto produttivo marchigiano in generale) hanno progressivamente chiuso gli stabilimenti o li hanno trasferiti all’estero. Stessa sorte è toccata alle imprese straniere che operano sul nostro territorio, dall’americana Whirpool alla svedese Electrolux. Un vero tracollo, che ha investito senza distinzione tutti i segmenti: lavatrici, lavastoviglie, frigoriferi.

Le cause sono facilmente immaginabili: il sistema Italia non è più competitivo, almeno per le grandi produzioni in serie. E’ impressionante osservare, in parallelo al declino delle nostre aziende, l’ascesa trionfale dei competitor stranieri. Prendiamo il caso del colosso turco Arcelik (10 marchi diversi tra i quali Beko, Grunding e Blomberg). Stabilimenti in Turchia, Romania, Russia e Cina, per un totale di 19 mila dipendenti. Fatturato 2012 pari a 4,49 miliardi di euro, in crescita esponenziale: + 25% rispetto all’anno precedente, con buona redditività (Mol vicino al 10%). Da notare che la crescita a due cifre riguarda anche il mercato europeo, nonostante la crisi nera dei consumi. I segreti di questo strabiliante successo? Ne dobbiamo citare almeno due. Il primo è piuttosto scontato: un operaio turco guadagna mediamente non più di 800 euro al mese netti. Il secondo un po’ meno ovvio, ma forse ancora più potente: la lira turca, negli ultimi due anni, si è svalutata verso l’euro da 1,9 a 2,4.

Nonostante tutto, l’industria del Bianco occupa ancora 130mila addetti e garantisce un attivo della bilancia commerciale di 2,5 miliardi. Si può fare qualcosa per arrestare una tendenza che sembra irreversibile? All’assemblea del Ceced (produttori di elettrodomestici), tenutasi alla fine di febbraio, la richiesta più pressante alle istituzioni è stata quella di un piano di incentivi per la sostituzione degli elettrodomestici obsoleti, stimati in Italia in circa 20 milioni, oltre che di misure a sostegno dell’innovazione. Nel leggere i resoconti della stampa, devo confessare di aver provato un po’ di mal di pancia. Francamente, non sono per niente convinto che la via degli incentivi di settore sia la soluzione. Prima incentiviamo l’auto, poi gli infissi di casa, poi i pannelli fotovoltaici, poi il cambio della lavatrice. Diamo qualche mese di fiato ai produttori, ma cosa abbiamo risolto?

Finito l’incentivo, tutto torna come prima, anzi peggio di prima, dato che i problemi del sistema non sono risolti e il mercato si è saturato di prodotti nuovi. Seguirei una via radicalmente diversa, fatta di misure strutturali valide per tutti, senza distinzione tra i settori. Solo un piccolo esempio (ma riprenderemo presto il discorso): riduzione immediata del “cuneo fiscale” attraverso una riduzione della tassazione sul lavoro; ciò vuol dire lasciare più soldi in tasca ai cittadini e quindi incentivare immediatamente i consumi. Lo Stato non perderebbe gettito, che verrebbe recuperato attraverso l’Iva. Il cittadino potrebbe serenamente decidere, senza azioni pilotate, se cambiare le finestre di casa, il televisore o il frigorifero. E le aziende sarebbero stimolate ad una vera competizione, senza favoritismi. Il paziente malato non va drogato, ma piuttosto curato come tutti gli altri.

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