Alla veneranda età di 87 anni, Bernardo Caprotti è rimasto solo. Il patron di Esselunga, dopo decenni di guerriglia legale con i fratelli prima e i due figli poi, resta il solitario timoniere del colosso della grande distribuzione (6 miliardi di fatturato). Una vicenda emblematica, con un copione simile a tante altre storie dell’imprenditoria di casa nostra, fortemente poggiata sul familismo aziendale. Un fenomeno spesso virtuoso e generatore di crescita: fare impresa tra componenti di una stessa famiglia, che condividono un retroterra culturale e valoriale comune, può costituire un enorme vantaggio competitivo. Sentire l’azienda come parte della propria pelle, del proprio destino, dei sogni e delle aspirazioni di un intero nucleo parentale, genera un senso di appartenenza ed una determinazione difficilmente trasferibile anche al collaboratore esterno più diligente e devoto alla causa.
Ma l’impresa di matrice familiare (PMI e non solo) nasconde anche molte insidie: frustrazioni latenti, rivendicazioni mai veramente affrontate, accuse e ripicche pronte ad essere brandite al primo tavolo di confronto, esplodono in modo spesso più virulento e insanabile tra membri di uno stesso gruppo familiare. Questi conflitti sono purtroppo all’ordine del giorno. Capita a volte che la tensione diventi insostenibile, ma anche in questi casi è raro osservare un passo indietro tra contendenti ed un arretramento di qualcuno al semplice ruolo di socio. “L’azienda è anche mia e ho gli stessi diritti degli altri” è in sintesi il ragionamento, che trascende spesso a vero e proprio “urlo di guerra”. Il rimedio a cui ricorre il capostipite, a volte anche mal consigliato, spesso è peggiore del male: inquadrare l’intero albero genealogico all’interno dell’organigramma aziendale, compresi individui che non hanno stoffa, predisposizione caratteriale e competenze tecniche per ricoprire validamente un certo ruolo.
Il problema del passaggio generazionale è delicatissimo e dovrebbe essere affrontato dall’imprenditore a tempo debito e con la massima possibile razionalità. La ricetta non è mai univoca, ma deve essere “calibrata” di caso in caso, previa una attenta analisi di vari aspetti specifici: caratteristiche dell’impresa, attitudini delle persone coinvolte, patrimonio familiare ed altri ancora. Quando l’imprenditore riesce a superare la sua innata diffidenza, si dimostra molto utile il ricorso a professionisti specializzati, che intervengono per facilitare la gestione dei conflitti e guidare l’impresa verso la soluzione più idonea possibile (ed anche meno traumatica). Insomma, con un’onesta e tempestiva introspezione, in molti casi, si può non soltanto garantire la sopravvivenza all’azienda, ma anche regalare a se stessi e alla propria famiglia un futuro migliore.
12 comments
Gianguido Corniani says:
Gen 4, 2013
Caro Michele, mi sembra una storia cucita su misura…Non posso che confermare, tristemente, virgola per virgola, soprattutto l’intero secondo capoverso.
Posso solo dare un consiglio, chi all’interno dell’organigramma aziendale “ha la stoffa per farlo”, faccia un passo indietro, si lasci scivolare addosso le accuse e le ripicche (tappandosi orecchie e naso) e si ponga davanti l’unico obiettivo possibile: il bene dell’azienda.
Non e’ facile ma e’ la sola via d’uscita.
alessandro m says:
Gen 4, 2013
il bene dell’azienda vuol dire anche:
1- affidare l’azienda ad un professionista e valutarne i risultati su un orizzonte temporale di minimo 3 anni. Magari meglio affiancarsi ad esso per imparare. Sarebbe utile coinvolgerlo nei risultati ma attenzione…quelli si vedono in minimo 3 anni. Dico imparare perché il fondatore, pur con intuizioni e determinazione impareggiabili, può a volte essere curvo su se stesso nella quotidiana operatività e non vedere la situazione sotto una diversa visuale, quella di chi ha visto più realtà aziendali;
2- non abbandonare la propria creatura: il controllo del professionista è sempre lecito e direi necessario ma ciò non vuol dire impartirgli lezioni del tipo come si fa a fare la punta alle matite;
3- e se non ci si fida di un professionista o di una squadra di professionisti, di una manager interno che si conosce da anni, e gira e rigira non c’è neppure tra i parenti fino al terzo grado una persona almeno affidabile e sveglia quanto lo è il fondatore, non c’è altro da fare, il bene dell’azienda vuol dire anche venderla al momento più opportuno. Questo è un bene per sé, almeno si lascia qualcosa ai figli, e un bene per i dipendenti: piuttosto che annaspare quotidianamente nelle difficoltà senza vedere una via d’uscita, si lasci che qualcun altro con capacità intellettive e finanziarie superiori cerchi di portare in porto la nave.
Gianguido Corniani says:
Gen 5, 2013
@ Alessandro M.
non conoscendoti credo che tu non ti riferisca a me personalmente quando parli di capacita’ intellettive, quelle finanziarie mi interessano meno…
Se invece ti riferisci proprio a me credo tu abbia frainteso il mio messaggio, intendevo dire che per perseguire il bene dell’azienda, non bisogna perdere il proprio tempo rispondendo (occhio per occhio) ad accuse o ripicche ma spendere tutti se stessi nel raggiungere gli obiettivi prefissati.
Se invece parli di una tua situazione personale, credo sia chiaro che tu preferisca insegure la prima piu’ deleteria strada…Ahime’
fabrizio 65 says:
Gen 5, 2013
Bravo Michele, hai inquadrato perfettamente la situazione.
alessandro m says:
Gen 5, 2013
@Corniani non conosco la realtà della tua azienda o la tua personale. Avevo letto a suo tempo l’intervista e ho apprezzato l’inizativa che hai intrapreso. E quindi parlo a 360° senza riferirmi a nessun caso in particolare, neppure mio personale. Quello che ho scritto è frutto di studi e osservazione di diverse realtà e ho voluto fare una veloce (e per forza anche una approssimativa) sintesi di quello che penso.
Michele D' Apolito says:
Gen 6, 2013
Caro Gianguido, non so se la mia analisi sia totalmente cucita su misura per la realtà che ti coinvolge, credo però che ci sia qualcosa che lega un imprenditore alla sua azienda che va oltre la ragione, i sabati e le domeniche, le notti insonni a pensare a soluzioni praticabili per i problemi del giorno dopo. Di fronte a quel sentimento mi inchino, davanti a quella spinta anche la lucidità di osservare dall’esterno i propri problemi di interazione parentale diventa un esercizio difficile da praticare, anche per le menti più ispirate. Quindi le soluzioni universali non esistono, guai a propinarle. Occorre la pazienza di analizzare le ragioni dei contrasti e, per il bene dell’azienda, ogni tanto chiudere orecchie e bocca, facendo prevalere il bene comune. Su questo hai perfettamente ragione.
Michele D' Apolito says:
Gen 6, 2013
@ Fabrizio65 grazie per l’apprezzamento
Gianguido Corniani says:
Gen 6, 2013
Caro Michele, la tua è una analisi chiara ed ahimè sintomatica di uno dei grossi problemi delle aziende famigliari (i pregi credo siano chiari a tutti).
Purtroppo, come giustamente, affermi nessuno ha la ricetta risolutrice, ma credo che fare un passo indietro, e cambiare il fuoco dei propri obiettivi possa aiutare a non “affossare” quanto di eccellente hanno portato anni di sacrifici e passione.
@Alessandro M. L’impeto della mia risposta è dovuto al fatto che a volte la realtà non si sposa con le teorie, nemmeno quelle più riconosciute, quando l’intero albero genealogico viene messo in organigramma (o peggio ancora in CDA) diventa difficile anche per il professionista più blasonato gestire la situazione.
Su una cosa concordo con te in pieno vendere nel momento più opportuno (business is business senza sentimentalismi) non a chi ha capacità intellettive superiori, ma a chi può prendere decisioni senza “ferire” l’amor proprio del parente…
alessandro m says:
Gen 6, 2013
Già, concordo 🙂
david pierantozzi says:
Gen 7, 2013
Comprendo l’amarezza di chi ha scritto prima di me, conoscendone tra l’altro il travaglio personale. La tentazione del “passo indietro” è assolutamente comprensibile dal punto di vista umano. Dal punto di vista aziendale, credo invece che dobbiamo sempre tenere un punto fermo: l’azienda deve assolutamente funzionare come una piccola democrazia, con un governo (il consiglio di amministrazione) che deve funzionare secondo meccanismi di consenso e maggioranza. E la minoranza si dovrà adeguare, che faccia parte attiva del “governo-cda” o meno.
Ci sono molte PMI che hanno conosciuto soltanto la “monarchia” del fondatore e purtroppo non hanno questa impostazione culturale. Il passaggio può essere ahimè lungo e faticosissimo.
Una cosa è certa: se l’azienda è in grado di formare delle maggioranze, e prendere delle decisioni, bisogna che queste decisioni siano rispettate ed attuate da tutti. Prevedendo anche delle precise sanzioni nel caso in cui qualcuno remasse contro.
Se l’azienda non fosse più strutturalmente in grado di assumere delle decisioni, si arriverebbe alla “paralisi decisionale”, che in aziende piccole a matrice familiare vuol dire solitamente polverizzare in poco tempo il valore faticosamente costruito negli anni.
Questa ultima ipotesi va assolutamente scongiurata. La maggioranza (se davvero esiste) deve dunque rivedicare la sua forza, e restare saldamente un passo avanti.
lorella pozzi says:
Gen 7, 2013
Condivido assolutamente e nel suo complesso, l’analisi fatta da Michele che riguarda peraltro, buona parte del tessuto imprenditoriale italiano. L’esperienza professionale mi permette di confermare che numerose sono le realtà aziendali di questo paese in cui l’assetto organizzativo a carattere familiare ha prodotto/produce sicuramente crescita economica, lavoro, vantaggi competitivi ma altrettante purtroppo sono quelle in cui i “rapporti parentali non gestiti” provocano le crisi aziendali. Proprio le frustazioni represse, le rivendicazioni mai risolte, originate spesso all’interno della sfera privata, generano quei conflitti di/tra ruoli che determinano l’ingovernabilità dell’impresa. La soluzione poi non è unica ma varia per singolo caso.
Condivido inoltre con David la riflessione che le aziende, in via teorica, sono “governate” secondo criteri di democrazia e quindi le “decisioni” delle maggioranze devono essere rispettate. Tuttavia, l’attuazione di quelle decisioni diviene difficile nella realtà, proprio a causa di quei sentimenti nagativi repressi, di cui accennato sopra
giovanni bassi says:
Gen 10, 2013
Ho letto ora questo articolo sul passaggio generazionale. Inquadra bene il problema, che esiste e spesso è di difficile risoluzione. Quanti convegni su questo tema… La verità e che, normalmente, un imprenditore, specie se ha creato lui l’azienda, è talmente caparbio, forte e determinato che rimuove il problema della sua successione, lo rinvia nel tempo, per non doverlo affrontare. Per esperienza personale ho visto aziende e intervistato molti imprenditori: nessuno ha mai ammesso che figlio, figlia, figli siano assolutamente incompatibili con il mestiere dell’imprenditore, non ne siano capaci semplicemente perché non ne hanno la stoffa. Certamente adatti a fare dell’altro, ma non l’imprenditore. E’ blasfemo dire questo? Credo di no a patto che ciascuno di noi accetti una regola semplice: non è detto che il figlio di un avvocato, imprenditore, giornalista etc. sia capace di continuare il mestiere del padre, del nonno… E’ dura ammetterlo, ma si evitano tragedie e disastri.