Si è chiuso un altro anno drammatico per l’Unione Europea e per i suoi cittadini. Dopo un momento di calma apparente a inizio anno, il 9 marzo si manifesta il primo fallimento di uno Stato sovrano nella storia dell’eurozona: la Grecia viene dichiarata tecnicamente insolvente per una parte consistente del suo debito pubblico. Risulta subito evidente a tutti che non si tratta solo del default di uno Stato: è un fallimento per tutta l’Unione, che si dimostra del tutto incapace di gestire una situazione di crisi. Risultato: 206 miliardi buttati al vento (l’intero debito greco è pari a 360 miliardi) e un popolo ridotto in rovina.

Nei mesi successivi il clima di sfiducia imperversa e la tensione sale alle stelle. Diventa palese che il meccanismo europeo è un giocattolo fragilissimo. Unire 17 Paesi radicalmente diversi sotto il profilo economico, sociale, politico e quindi degli interessi nazionali si rivela improvvisamente poco più che un’utopia. Lo scontro tra Germania e resto d’Europa raggiunge il culmine. E sono in molti a cominciare a credere seriamente al collasso della moneta unica. Il 12 giugno Christine Lagarde, presidente del Fondo monetario internazionale, emette la sua funesta sentenza: “l’euro ha tre mesi di vita”. Un po’ più ottimista era stato pochi giorni prima il grande finanziere Soros: “l’Europa ha 100 giorni per salvare l’euro”.

Il 26 luglio arriva la svolta. Il Presidente della Banca Centrale Europea, l’italiano Mario Draghi, pronuncia dal pulpito della Global investment conference di Londra un discorso destinato probabilmente ad entrare nei libri di storia: “All’interno del proprio mandato, la Bce è pronta a fare qualsiasi cosa per salvare l’euro. E credetemi, questo basterà”. In sostanza, il Presidente promette di fare quello che prima sembrava impossibile: intervenire direttamente per acquistare i titoli di Stato dei Paesi in difficoltà e dunque, indirettamente, garantirnela solvibilità. Poco dopo, il FMI pronuncia un altrettanto storico mea culpa sulla linea della esasperata austerità, ammettendo un errore tecnico sugli effetti recessivi della politica fiscale.

I mercati credono al Presidente della Bce e il clima funereo di giugno si rasserena un po’. Agosto passa meglio del previsto e nell’ultimo trimestre l’euro si rafforza sul dollaro, lo spread scende e i nostri titoli di stato vengono collocati con una certa facilità. C’è da fidarsi?  Confesso il mio scetticismo. Le riforme dell’Unione Europea, quelle vere, quelle che alla lunga dovranno fare la differenza sono ancora latitanti o embrionali. Sono state fatte soltanto due cose quest’anno: il Fiscal compact, che rilancia obiettivi in buona parte irrealizzabili per diversi Paesi (deficit/Pil al 3% e debito/Pil al 60%) e l’Unione bancaria, che in realtà è stata ridotta ad una mera “sorveglianza bancaria” che oltretutto partirà dal 2014. Risultati molto stiracchiati. E mentre gli eurocrati discettano sugli obiettivi di alta finanza, l’economia reale è sempre più in crisi, la disoccupazione cresce, il debito degli Stati aumenta. Mario Draghi con il suo intervento di luglio ha sicuramente comprato del tempo aggiuntivo per l’Europa. Ma non facciamoci illusioni. Le lancette girano veloci, il tempo prima o poi finirà. E se non saremo pronti, non avremo una seconda opportunità.

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