Questo non è un Paese per laureati. In base a un recente rapporto dell’Ocse, si scopre che l’Italia è al penultimo posto dei 34 Paesi membri nel rapporto tra laureati e popolazione attiva (15%, davanti alla sola Turchia). Anche le chances di trovare impiego non sono generose: dal 2002 al 2010, l’occupazione per i nostri dottori è scesa dall’82,2%al 78,3%, mentre la percentuale di occupati tra i diplomati, nello stesso periodo, rimane stabile (dal 72,3% al 72,6%). Riguardo ai riflessi in busta paga delle scelte formative, si osserva che il divario di retribuzione tra laureati e diplomati è soltanto del 9% nella fascia di età 25-34 anni.
Come conseguenza di questa situazione, si sta consolidando una tendenza interessante: un marcato ritorno ai mestieri e in generale ai lavori manuali. L’aspetto inedito riguarda non tanto la volontà di disertare le aule universitarie, ma di riconoscere dignità e preparazione ad impieghi considerati fino a poco tempo fa come un temporaneo parcheggio in attesa di occupazioni più remunerative e “prestigiose”. Una nutrita schiera di persone si indirizza presso i centri di formazione, alla ricerca di qualifiche professionali. Per fare alcuni esempi, cuoco, pizzaiolo, pasticcere, idraulico, restauratore, estetista, meccanico, elettricista: quelli che a volte vengono definiti gli “umili di ritorno”. Non solo ragazzi al primo impiego, ma anche lavoratori in cerca di riconversione. Si opta per specializzazioni che richiedono comunque un accurato percorso di preparazione, ma non necessitano di investire troppi anni per l’agognato pezzo di carta e soprattutto forniscono rapidamente le competenze richieste dal mercato.
Nella sola regione Lombardia, nel biennio 2010/2012 gli alunni iscritti ai Centri di Formazione Professionale accreditati presso la Regione sono cresciuti di oltre il 20%, raggiungendo quota 39.900 (contro i 33.200 del 2010/11), pari al 12% della popolazione scolastica regionale delle secondarie superiori. Gli incrementi maggiori sono stati registrati nella provincia di Bergamo (+34%), ma anche Brescia segna un +22%. Può trattarsi in molti casi di una necessità legata alla quadratura del bilancio familiare, più che di effettiva e consapevole scelta. Ma è un trend che va analizzato in chiave prospettica, riguardando soprattutto le nuove generazioni, sempre più lontane da un’università spesso inadeguata all’inserimento nel mercato del lavoro. A livello di sistema, molto si può fare per la qualità dell’offerta di adeguati percorsi formativi di volenterosi ventenni; magari proprio di quelli che, a fronte della possibilità di uno svogliato soggiorno pluriennale pagato da papà presso qualche ateneo, preferiscono mettersi in gioco da subito per costruirsi un futuro.
7 comments
maxfal says:
Dic 21, 2012
L’Italia vive una forma di spread pericoloso: i 30 punti di competitività persi in 15 anni sulla Germania nascono anche in aula, dalle scelte sempre più indirizzate ai modelli di studi teorici, dalla diffusa idea di una supremazia della cultura umanistica nei confronti del sapere tecnico.
Credo che l’articolo di Michele sottolinei l’esigenza/emergenza di tornare a formare figure tecniche. L’evoluzione dei mestieri è visibile nel tempo. La conoscenza aumenta il suo ruolo ma la manualità resta un elemento prezioso e mai disonorevole.
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aureliano says:
Dic 21, 2012
La fortuna economica del nostro Paese è partita dalla capacità artigianale e tecnica. I fondatori delle nostre “famose” PMI erano, quasi sempre, dei grandi appassionati della “manifattura”. Questa cosa si sta perdendo nelle generazioni più giovani e questo fatto mi preoccupa più della concorrenza cinese.
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david p says:
Dic 22, 2012
Le professioni citate nell’articolo sono state negli ultimi anni occupate da extracomunitari. Ne conosco alcuni che hanno costituito imprese artigianali floride e che hanno fatto lauti guadagni. Tra un po’ i giovani italiani con tanto di laurea in tasca lavoreranno per loro. Personalmente, questa inversione di tendenza mi fa molto piacere.
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lorella pozzi says:
Dic 23, 2012
Il tessuto economico del nostro Paese è costituito da imprese di piccole e medie dimensioni a carattere “padronale” il cui fondatore per decenni ne ha determinato il successo grazie all’elevata esperienza tecnico-manuale acquisita. La maggiore scolarizzazione avvenuta negli anni ’80/’90 avrebbe dovuto apportare nuove e maggiori conoscenze tecniche nel sistema economico complessivo determinando una grossa crescita. Ciò non è avvenuto perchè a mio avviso l’individualismo, l’egoismo e in molte situazioni l’avidità hanno prevalso rispetto il senso del bene comune, della collettività e della lungimiranza. Si è sprecata così una grossa ricchezza (culturale)e a questo punto non ci resta che ripartire proprio da quelle attività artigianali, sfruttare le conoscenze acquisite e attivare la creatività per generare “novità”.
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Michele D' Apolito says:
Dic 23, 2012
Grazie Lorella per il tuo commento, di cui non condivido il fatto che si sia buttato via un grosso patrimonio culturale, semplicemente perché era ed è un patrimonio nominale, per buona parte non immediatamente spendibile sul mercato del lavoro.
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alessandro m says:
Gen 3, 2013
diciamola tutta: stiamo prendendo il posto dei cinesi. In che senso? loro smontano dalle biciclette e comprano macchine. Noi rottamiamo macchine (costa mantenerle) e compriamo bici. E tra un po’ avviceneremo i cubani: lì niente è buttato via, tutto si aggiusta e niente si compra. Dai, non tutto il male viene per nuocere, salvaguardiamo l’ambiente e puntiamo al riciclaggio. E’ certo un paradosso ma un po’ di verità c’è. Stiamo tornando alla società destrutturata degli anni ’50. E da lì si ripartirà. Si potrebbe uscire da questo sistema anche in un altro modo, vale a dire puntare all’aggregazione di imprese e all’innovazione per meglio competere a livello globale. Ne siamo capaci? La cultura del piccolo è bello ha imperato da tempo e nessuna innovazione può essere fatta se non partendo da un ottimo sistema scolastico, di eccellenza e aperto veramente a tutti.
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stradivari says:
Gen 4, 2013
D’accordissimo con l’analisi di Alessandro M, soprattutto sull’ultimo punto: non si può pensare di tornare ad essere un Paese moderno con istituti scolastici pubblici ridotti a garage maleodoranti e frequentati da docenti zombie e privi di alcuno stimolo.
Non è un problema di sola università, ma un complesso percorso che parte da lontano, dalla primaria e secondaria. Se non si forma adeguatamente, negli istituti tecnici e scientifici, la matricola universitaria non può stare al passo con i coetanei di Stati più evoluti
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