La vicenda dell’Ilva di Taranto non fa eccezione: l’informazione nostrana deve creare due schieramenti contrapposti, radicalizzare le posizioni a tutti i costi. Da una parte, chi vuole in ogni modo la riapertura dello stabilimento, pena l’apocalisse economica; dall’altra, chi è favorevole al sequestro, perché prima di tutto vengono la tutela della salute pubblica e dell’ambiente. Mai come in questo caso, questo approccio “mediatico” mi pare dannoso e fuorviante. I giudici fanno sicuramente il loro mestiere quando pretendono il rispetto della legalità e chi fa industria lo deve certamente fare nel rispetto delle regole. Ma ci sono situazioni, come questa, nelle quali l’applicazione delle legge non può prescindere dalle conseguenze potenzialmente letali sul contesto economico e sociale. Ecco perché non serve a nulla radicalizzare lo scontro, ed un compromesso ragionevole diventa inevitabile.

Due giorni fa, il Governo è intervenuto con un decreto che prevede la riapertura degli impianti, subordinata ad un programma di bonifica che i proprietari dell’azienda dovranno rispettare in tempi prestabiliti. Una sorta di “salvacondotto” governativo, con l’introduzione della figura di un garante, che dovrà vigilare sull’attuazione del risanamento ambientale e, se del caso, sanzionarne comportamenti difformi. Le sanzioni per l’inosservanza di tali obblighi di bonifica sono giustamente durissime: da una pesante multa sul fatturato fino all’esproprio, costituzionalmente previsto in casi analoghi. Il provvedimento è stato fortemente criticato dalla magistratura, che considera travalicato il suo campo d’azione e vede una grave minaccia per la salute pubblica, e da alcuni ambienti politici, fermamente convinti “a prescindere” della correttezza dell’operato del gip di Taranto.

A margine della diatriba, pochi sottolineano il fatto che Ilva rappresenta la prima industria siderurgica italiana e la seconda in Europa, con quindicimila dipendenti, indotto compreso. La sua chiusura costituirebbe il triplice fischio per il tessuto economico dello Ionio pugliese, in cui Ilva concorre per l’80% del Pil, ma anche per la nostra economia nazionale si tratterebbe dell’ennesimo pesantissimo colpo. Un Paese a vocazione manifatturiera non può restare senza grandi industrie siderurgiche; ciò implicherebbe ricadute pesanti in termini di dipendenza da altre economie, oltre ad un’impennata dei prezzi della materia prima per i comparti interessati. I proprietari dell’Ilva hanno dunque un’ultima possibilità di scrivere un finale diverso per il brutto film di cui si sono resi protagonisti. Ma difficilmente lo faranno. A questo punto gli scenari possibili resterebbero soltanto due: la chiusura dei cancelli al grido di “muoia Sansone con tutti i filistei” oppure l’ennesima colonizzazione della nostra industria da parte di qualche gruppo straniero. E questo, sciovinismo a parte, non sarebbe di per sé una tragedia.

 

 

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