La spaventosa crisi economica scoppiata qualche anno fa ha avuto, a mio avviso, soltanto un merito: ha fatto tornare la ragione ai tanti dissacratori dell’economia reale. Dopo aver visto infatti cosa può scatenare la perdita di controllo dell’alchimia finanziaria più speculativa è riapparsa nel mondo la voglia di tifare per la concretezza delle imprese manifatturiere. Questo ha portato, quasi ovunque, scelte di governo improntate al rafforzamento del sistema produttivo, al rilancio dei campioni nazionali dell’economia e ad una strategia di attrattività verso gli investimenti dall’estero. Insomma si è tornati a fare politica industriale. Ho detto “quasi ovunque” perché, spiace dirlo, l’Italia anche su questo campo si è fermata alle solite promesse ed annunci. Ma sgombriamo il campo da ogni dubbio: la politica industriale non è la strategia di sostegno a questo o quel settore, e men che meno una distribuzione a pioggia di contributi alle aziende bensì la condivisione di un piano generale di sviluppo del Paese tramite il rafforzamento del principale motore del paese, l’industria.
La nostra storia ci ha mostrato dei momenti strabilianti di crescita, come negli anni 60, dove proprio le scelte industriali permisero di raggiungere percentuali di PIL superiore al 6% (oggi un miracolo arrivare all’1%). Si decise di investire sul lavoro, sulle infrastrutture, sulla diffusione di alfabetizzazione e cultura. Si fecero scelte di lungo periodo. All’appello oggi manca una capacità di programmazione e sviluppo che duri oltre le scadenze elettorali. Lo spontaneismo imprenditoriale ed il self made industriale, grandi sostegni nei decenni della economia italiana, non sono più da soli sufficienti a vincere le sfide competitive, o meglio non lo sono in un “contesto Paese” che non sa dimostrarsi business friendly, che non vuole rinunciare ad una burocrazia assurda, che non è capace di rendere equa la sua tassazione, che non stimola le esportazioni e che non cerca di offrire una giustizia rapida ed efficiente.
Da dove dovrebbe partire una nuova politica industriale italiana? Per esempio dall’uso del fisco, dalla sua capacità di poter essere non solo strumento di cassa ma anche di “leva”, in grado di premiare, con agevolazioni o sgravi importanti, chi assume, chi fa attività di ricerca, chi aumenta le esportazioni in nuove aree del mercato, chi rafforza patrimonialmente la propria impresa, chi aumenta gli investimenti in sicurezza e sostenibilità ambientale. E’ politica industriale anche definire una progettazione energetica del paese. Adottare un articolato piano sul consumo e sul risparmio energetico, un adeguato sistema di distribuzione, superare le chiusure del NIMBY e dar vita a nuovi impianti di alta tecnologia (come i rigassificatori) ed implementando la ricerca di fonti rinnovabili. Ed è anche politica industriale quell’azione di sostegno sui singoli territori finalizzata agli aumenti insediativi: si pensi ai modelli americani delle enterprise zones, aree di potenziale sviluppo produttivo per le quali è previsto un particolare sistema di incentivi a favore delle imprese che intendano investirvi e svolgervi attività produttiva (zero burocrazia, esenzione dalle imposte locali per i primi anni, finanziamenti agevolati etc). In conclusione pensate cosa potrebbe fare il nostro Paese, oggi settima potenza industriale al mondo e seconda in Europa, se potesse contare sulle stesse (non dico migliori) condizioni dei nostri competitors! La campana è suonata da un pezzo, l’Italia non può sprecare altre occasioni.
6 comments
adone paratore says:
Apr 2, 2012
Concordo con Massimiliano sull’analisi e sulle sue proposte per il rilancio di una politica industriale in Italia per i prossimi anni. Vorrei aggiungere, a sostegno di quanto da lui affermato,che il modello peculiare italiano avrebbe altresi bisogno di una serie di meccanismi generalizzati per la riqualificazione ed il rafforzamento della piccola e media impresa, da sostenere nella ricerca e innovazione tecnologica, nella riduzione dei costi, nella promozione degli investimenti e nella crescita dimensionale visto in un’ottica di internazionalizzazione.Avremmo bisogno di metterci seriamente a tavolino e discutere costruttivamente di nuovi sistemi di incentivazione “ad hoc” basati sulla sinergia fra Enti locali,imprese, sistema universitario e Centri di ricerca, auspicabilmente coordinati da soggetti quali un Responsabile di Progetto dalla comprovata esperienza nel settore strategico relativo. I temi principali su cui lavorare sarebbero quelli su cui gia’ da tempo la comunita’ economica pone una forte attenzione ossia quelli dell’efficienza energetica,della tecnologie innovative, delle nuove tecnologie per la vita e di quelle per il made in Italy. Si potrebbe dire dell’altro ma penso che per il momento basti cosi. L’argomento e’ troppo importante e vitale per il nostro futuro, e per quello delle generazioni piu’ giovani. Complimenti ancora a Massimiliano per aver iniziato a dibatterne in termini cosi costruttivi.
Francesco Presutto says:
Apr 3, 2012
Hai fatto benissimo a chiarire cosa si dovrebbe intendere per politica industriale. Dico “si dovrebbe” perché purtroppo negli ultimi anni in Italia si è concretizzata solamente in contributi disorganizzati a specifici settori (auto, elettrodomestici, fotovoltaico…). E’ mancata quella visione di lungo periodo che giustamente hai sottolineato. La strategia del NO a prescindere a qualunque iniziativa (ultima eclatante quella del rigassificatore di Brindisi, di cui abbiamo trattato) non farà altro che rendere incolmabile il gap con gli altri paesi industrializzati.
gino berto says:
Apr 3, 2012
“All’appello oggi manca una capacità di programmazione e sviluppo che duri oltre le scadenze elettorali.”
Speriamo che il governo Monti, che non dovrebbe avere queste attenzioni, abbia inaugurato un nuovo stile di politica e lavoro che contribuisca a mettere una pietra tombale su questo statement.
Poi dipenderà tutto da noi italiani che, ricordo, in tempi brevi saremo chiamati a rinnovare i nostri rappresentanti e i nostri governanti.
alessandro m. says:
Apr 3, 2012
ottima analisi. Aggiungerei che l’Italia dovrebbe ad oggi essere la ottava potenza mondiale, superata dal Brasile. Scivoleremo verso la decima posizione, così come dicono le previsioni. Di politica industriale se n’è fatta (vari incentivi allo sviluppo e all’innovazione) ma in modo disorganico e non coordinato tra le diverse istituzioni (Regioni, Stato, Comunità Europea).
michele d'apolito says:
Apr 3, 2012
Grazie Massimiliano per il tuo lucido contributo, che solleva una questione troppo spesso ignorata: una visione organica di politica industriale dello Stato, sempre impegnato a toppare falle con la leva fiscale e privo di un disegno strategico. Tanta colpa è della politica, di ogni colore, che ha una visione di corto respiro ed è troppo legata alle pulsioni del proprio bacino elettorale; oltre ad essere bloccata da un sistema bicamerale ormai anacronistico. Ma questo è un altro discorso…
david p says:
Apr 3, 2012
L’idea che più mi colpisce nel puntuale intervento di Massimiliano è quella di superare finalmente il “self made industriale”: una vera rivoluzione culturale per il nostro Paese. Un cambio di mentalità che certo deve essere chiesto a gran voce alle Istituzioni a tutti i livelli; ma anche a tanti imprenditori, che devono dare una maggiore “apertura di credito” a prospettive strategiche quali ad esempio la condivisione di know how, le aggregazioni, la trasparenza delle comunicazioni, l’investimento in ricerca, l’organizzazione aziendale ed altri. La politica industriale va pretesa dallo Stato, ma deve essere anche una “forma mentis” di chi la riceve.