L’affermazione più abusata nel descrivere l’economia italiana è quella secondo cui “le PMI sono la spina dorsale del nostro sistema”. Guardando al dato numerico, mai affermazione è stata tanto retorica quanto veritiera. In Italia le piccole e medie imprese rappresentano il 99,9% del nostro tessuto produttivo e il 95% di queste occupa meno di 10 addetti (fonte: Ufficio Studi Confcommercio). È ormai un fatto acquisito che il mercato odierno sia aperto ad una concorrenza globale ed il nostro tessuto produttivo, che ha fatto della flessibilità del “piccolo” la sua ragione di successo, incontra crescenti limitazioni per il fatto di essere poco strutturato. Un rimedio cercato dagli imprenditori di alcune zone geografiche per uscire dal sottodimensionamento produttivo è stata la ricerca di alleanze e partnership, pur nella reciproca autonomia giuridica. E’ così che in Italia si sono sviluppati numerosi distretti in ambito tessile, meccanico, nel settore dell’arredo e della pelletteria, per citare quelli più conosciuti. Questi network hanno generato numerosi vantaggi per le imprese coinvolte, sia in termini di economie di scala che di riduzione di barriere organizzative, finanziarie, manageriali ed informative.

La declinazione moderna del concetto di distretto è la rete di imprese, intesa come aggregazione di soggetti non necessariamente concorrenti su un prodotto (anzi, spesso con prodotti o lavorazioni integrabili a monte o a valle), ma aperti all’attivazione di sinergie, di prestazioni reciproche, di collaborazioni finalizzate ad un determinato obiettivo. Si pensi alla promozione di un polo industriale in ambito internazionale, con la partecipazione a fiere specifiche di settore oppure alla condivisione di un determinato know how da parte di imprese dotate di tecnici che parlano il medesimo “linguaggio”.

Tutto questo può diventare oggetto di un contratto di rete, cui la legislazione italiana riconosce piena legittimità ed interessanti agevolazioni: non trascurabili quelle fiscali, se si pensa che gli utili destinati al fondo patrimoniale comune sono in sospensione d’imposta! Ad esempio, un’impresa che consegue un utile netto di 100 e decide di destinarne 20 ad una riserva dedicata al patrimonio di rete, avrà diritto ad una variazione in diminuzione di pari importo sul reddito imponibile. A ciò si aggiunga un aspetto sociologico, dato dal fatto che le nuove generazioni imprenditoriali hanno una maggiore propensione a condividere le informazioni ed a far circolare le esperienze, complice l’ampia diffusione di una cultura da “social network”.

Il coinvolgimento delle PMI in questo tipo di aggregazioni è spesso affidato ad agenzie di sviluppo territoriale, partecipate da associazioni di categoria (penso a quanto ha fatto Reteindustria con il polo della cosmesi in territorio cremasco). Se non bastassero gli incentivi fiscali e le sollecitazioni al confronto, è il clima generale che invoglia a trovare soluzioni nuove e più incisive. L’indirizzo di una nuova politica economica non può che favorire in modo ancor più convinto la diffusione di strumenti di propulsione aggregativa, tra cui rientra certamente la rete di imprese. È giusto proseguire in questa direzione, se necessario anche con proposte di “detassazione shock” ancor più marcate. Non si pretende la creazione di una nuova Silicon Valley, ma almeno il salvataggio da una prossima Industrial Death Valley

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