Sofferenza, frustrazione, veri e propri drammi personali. Quello che c’è “dietro la crisi” cercano di descriverlo quotidianamente giornali e talk show. Ma forse nessuno può farlo bene quanto la buona letteratura, quella che riesce a raccontare i sentimenti, a parlare dritto al cuore. Siamo molto lieti di ospitare oggi sulle colonne del nostro Lab un racconto di Enrico Elvis Crotti,  autore esordiente di indubbie capacità, che si propone proprio questo: raccontare il dramma della crisi attraverso la letteratura. Il racconto, delicato e toccante, è contenuto in un volume di recente pubblicazione, “Juke box per uomini soli”, ExCogita 2012. Non mi resta che augurare a tutti buona lettura! (David Pierantozzi).

 

DISEGNAMI UN ALBERO

Qual è la prima parola che ti viene in mente se pensi al mondo d’oggi?
1) Ipocrita.  2) Egoista.  3) Ingiusto.  4) Violento.  5) Cool.   Non so rispondere. Abbandono il giornale sulla scrivania, accendo il computer. Sono le 8.35 di un lunedì d’aprile opaco e senza vento. Attendo la telefonata di Manfredini, la riunione d’inizio settimana. Fuori, c’è un panorama produttivo da provincia avanzata: prefabbricati e prati incolti, le torri di cemento e cristallo del centro commerciale, il parcheggio auto completo. Nel corridoio, due colleghi passeggiano con i bicchieri del caffè in mano. Io non bevo caffè. Mi sveglio ogni giorno alle 6. Faccio colazione da solo. Prima di uscire saluto Carla. Poi mio figlio. Ho dieci minuti per arrivare alla stazione e prendere il treno. Quando riesco, leggo. Arrivo in ufficio con le mani sporche d’inchiostro, l’odore della seconda classe sui vestiti e gli occhi già stanchi.

Hanno deciso di affiancarmi un consulente: un ragazzo di trent’anni, master in organizzazione aziendale. Mi presento: – Ciao. Sono Giovanni Vignati.
– Piacere. Sono Andrea Grimaldi. Cominciamo?
Il ragazzo non domanda: prende appunti. Trascrive ogni operazione. Decide di saltare il pranzo per riordinare le idee. Quando rientro dalla pausa è seduto al mio posto. Concentrato, ripete i comandi. Non commette errori.
– Sto provando la procedura, non ti dispiace vero?
Lo guardo con tutta la stanca indulgenza che ho collezionato in questi anni. Mi siedo dietro di lui. Lo osservo lavorare.

– Ci sono novità?
– No. Beh, niente di particolare. Da oggi, mi hanno affiancato un ragazzo giovane. E’ uno sveglio, intraprendente.
– Cos’è quella faccia? Hai paura che ti soffi il posto?
Rimango con la forchetta sollevata sul piatto. Mia moglie riconosce nel mio sguardo imbarazzo e disappunto.
Anche mio figlio solleva la testa dal foglio. Mi guarda.
– Lo sai che non voglio che disegni quando siamo a tavola.
–    Non c’è bisogno di prendersela con lui – incalza mia moglie.
Lui fa finta di niente, inforca un pastello, disegna due pipistrelli appesi al ramo di un albero e colora tutte le nuvole di nero.

Gocce di pioggia tremano sul finestrino. Il treno al mattino è un insieme di sguardi distratti sulla campagna che scivola via. La città non smette di annunciarsi: grossi palazzi e svincoli e parchi giochi deserti. All’orizzonte, il profilo dell’inceneritore. Leggo le notizie del giorno: le promesse del premier, l’Iraq, una dieta per l’eterna giovinezza. Sono circondato da una silenziosa infelicità fatta di bocche serrate e occhi spenti. In ufficio trovo una e-mail di Manfredini di ieri ore 20.34: l’aspetto alle 10 nel mio ufficio.

– Abbiamo deciso di offrirle l’opportunità di cambiare lavoro. Impiegati con la sua esperienza sono un patrimonio raro. E poi la sua cultura aziendale, la sua abnegazione sono per noi una garanzia.
L’ufficio di Manfredini è l’esempio equilibrato di colori e forme: un inno al non troppo. La finestra ampia si affaccia sulla tangenziale. I muri sono dipinti di beige, il portatile è chiuso sulla scrivania. Mi liquida con una stretta di mano esemplare: forte e paterna anche se ha 4 anni meno di me. Per tutto il colloquio ho ammirato i suoi gesti misurati, gli occhi chiari e severi, il fermacravatta. Mio padre mi diceva sempre di dubitare delle persone con il fermacravatta. Oggi indossa quello con il suo nome scritto in corsivo.

– Mi hanno fatto fuori.
Lo dico quando abbiamo finito di cenare, guardando due torsoli di mela in bilico nel piatto.
– Come ti hanno fatto fuori?  E con che motivazione?
– Nessuna. Dandomi soltanto un nuovo incarico.
– Beh, magari il nuovo lavoro è migliore.
– Migliore? Non penso proprio.
– Ti piace questo papà?
Il disegno di oggi è un aeroplano che bombarda un piccolo villaggio. Intorno non ci sono alberi ma soltanto un bambino e il suo cane che fuggono.
– E’ il compito per domani. La maestra ci ha chiesto di disegnare come immaginiamo la guerra.

Il mio nuovo ufficio è al primo piano vicino all’infermeria. Due scrivanie, non ci sono finestre.  Il collega si occupa della gestione del magazzino. Ha la faccia butterata, gli occhi incassati in uno sguardo poco intelligente, la barba lunga. Bofonchia qualcosa. Si chiama Mario, da 25 anni fa lo stesso lavoro.
– Piacere. Sono Giovanni Vignati, il nuovo product supervisor.
Lui non risponde. Finisco di sistemare i manuali. Appoggio sulla scrivania la foto di mia moglie e di mio figlio scattata l’estate scorsa a Ischia. Lui ha indosso un costumino azzurro, lei ha la testa abbassata, i capelli le coprono gli occhi.

– Chi ti ha conciato così?
– Nessuno.
– Come nessuno?!?
Lui tira su col naso. Le prime lacrime gli scorrono sulle guance. Sotto l’occhio destro, un livido nero.
– No, niente. E’ che sono caduto.
– Caduto da dove?
Mia moglie mi guarda severa. Il rumore di una lacrima batte sul foglio: c’è disegnato un uomo che corre inseguito da un cane e il cane ha la bocca così grande che non c’è posto per il sole.
– Me lo dici chi è stato?
Lui adesso piange a dirotto. Farfuglia che non è colpa di nessuno che stavano giocando che la palla è schizzata via e poi è successo ma non vuole che nessuno si picchi per colpa sua.
– Si, ma chi è stato?
Lui prende fiato prima di sussurrare il colpevole:
– E’ stato Moustafa. Un mio compagno d classe.

Arrivo tardi dopo le 9.00. Il traffico soffoca la città. L’ufficio è deserto. Sulla scrivania di Mario c’è uno scatolone con il suo nome scritto in nero. Accendo il computer. Una mail ricevuta: L’aspetto alle 9.30 nel mio ufficio. Manfredini.
In ascensore incontro Grimaldi, il consulente. Mi saluta appena, il portatile sottobraccio, sfodera un sorriso smagliante da core businness. Scrive qualcosa sull’agenda. Scende al terzo anche lui. Mi guarda allontanarmi. L’ufficio di Manfredini è l’ultimo in fondo al corridoio.
– Entri Vignati, la stavo aspettando. Si sarà già accorto che il suo collega è stato trasferito. A questo proposito volevo comunicarle che da oggi lei sarà il nuovo responsabile del magazzino. Obiezioni?
Lo guardo stupito. Sul fermacravatta c’è il profilo dorato di Topolino.
– Inoltre ci sono da gestire gli spedizionieri. Sono due brave persone: il più anziano arriva dal Marocco, l’altro è un ragazzo di queste parti.
– Va bene.
Non aggiungo altro.
– Dovrebbe anche stilare una relazione sul loro comportamento. Sa siamo in fase di ristrutturazione e ci vediamo costretti, nostro malgrado, a tagliare personale. So che lo ha già fatto in passato. Mi fido di lei.

– Papà, ma tu che lavori fai?
– Lavoro con il computer.
– Si, ma come si chiama il lavoro che fai?
– Sono un tecnico commerciale. Perché?
– Vuole saperlo la mia maestra. Stiamo facendo una ricerca sul lavoro dei nostri genitori.
Carla lo guarda con orgoglio. Nei suoi occhi c’è la consapevolezza che nostro figlio sta crescendo bene.
– E come faccio a disegnare il lavoro che fai?
– Disegna un ufficio con una scrivania, una sedia, un computer.
– Ma lo vedi il cielo dal tuo ufficio? E gli alberi?
Resto in silenzio, gli accarezzo la testa mentre Carla sparecchia.
– No, piccolo. Niente cielo e niente alberi.

Li osservo da due ore. Quello giovane è dinamico. Smista i pacchi, archivia i documenti senza esitare. L’altro, il marocchino, è lento, controlla più volte le ricevute, i codici, il nome del destinatario. I due non mi salutano. Sanno di essere sotto esame. Scambiano poche parole. Anche in mensa, il più giovane preferisce mangiare con due ragazzi della manutenzione. Il marocchino mangia da solo su un tavolo vicino alla finestra che da sul parcheggio. Ogni sera apro il file: giudizieosservazioni.doc. Ogni giorno mi faccio un’idea sempre più precisa.

In alcune serate di maggio ti capita di sentire il profumo dell’estate. Anche se sei in stazione e dai binari sale l’odore misto di ruggine e catrame. E questo odore fa male. Pensi alla vita al tuo lavoro: fogli excel da compilare, magazzinieri da tenere d’occhio, il capo del personale che ti adula. Sei in quell’età dove, per un’azienda, cominci a essere ingombrante. E loro lo sanno e ti mettono alla prova. Ti chiedono di controllare. Ti dicono: giudica! Ti fanno compilare questionari perentori. Arrivo davanti alla porta di casa, le ombre viola della sera avvolgono il giardino. Suono il citofono
– Carla. Sono io.
Lui è in camera sta colorando un albero. Le foglie sono verdi e azzurre.
– Ciao papà. Ti piace?
– Si, bello. Ma non ho mai visto un albero con il tronco così rosso.
– Si, lo so ma ho prestato i pastelli a Moustafa.
– Prestato?
– Si, lui ha pochi pastelli e allora abbiamo fatto cambio. Oggi coloro con i suoi pastelli e nei suoi pastelli il marrone non c’era.
– Ma che tipo è questo Moustafa?
– E’ un bambino forte e simpatico e bravo a scuola.
– Forte?
Lui mi guarda perplesso.
– Finito l’interrogatorio? La cena è pronta.
Carla arriva alle mie spalle. Per rassicurarmi, mi sfiora con le labbra la guancia senza baciarmi.

Suona la campana del pranzo. Recupero il badge. La mensa è un edificio colorato. Tavoli arancio e inox, il vapore dei cibi che arriva dalle cucine, il rumore delle posate, il vociare degli impiegati. Prendo il solito: riso in bianco e verdure, una bottiglia di minerale.  Mi siedo vicino la finestra. Il marocchino mi passa accanto. Si volta con lentezza, si accomoda di fronte a me. Mi guarda: ha gli occhi scuri, la pelle olivastra, i denti ingialliti.
– Perché hai deciso di farmi fuori?
– Io non decido un bel niente.
– Manfredini dice che sei tu che decidi.
– Io?
– Manfredini dice che tu controlli il lavoro.
– Io mi limito a vedere se è possibile migliorarlo.
– Manfredini dice che due magazzinieri sono troppi ma tu vedi quanto lavoro facciamo e poi decidi.
– Se sai tutte queste cose perché me le chiedi?
– Perché ho bisogno di questo lavoro. Perché ho una famiglia.
Non rispondo. Mangio una forchettata di riso.
– E pensi che l’altro ragazzo non abbia bisogno di lavorare?
– Anche lui ha bisogno del lavoro. Tutti hanno bisogno di lavorare.
– Secondo te cosa dovrei fare?
– Cerca di essere giusto. Non fare lo stronzo come tre anni fa.
– Tre anni fa cosa?
– Lo sai bene signor Vignati. Lo sanno tutti qui dentro!

Quando arrivo a casa mio figlio sta già dormendo. Mi ha lasciato sul tavolo della cucina un nuovo disegno: sulla sinistra c’è un albero maestoso: il tronco marrone, i rami aperti verso il cielo, le foglie piccole e verdissime. A destra c’è una palma con il tronco rosso, i datteri gialli. Le foglie blu nascondono un sole che tramonta. Sotto la quercia leggo il nome di mio figlio. Sotto la palma, chiuso in una scrittura spigolosa e incerta leggo: Moustafa.

Sto lavorando da due ore sul file giudizieosservazioni.doc. Applico le regole che insegnano ai corsi quadri: obiettività e distacco. Quando alzo gli occhi vedo Grimaldi. E’ immobile davanti alla mia scrivania. Indossa un vestito chiaro, la camicia azzurra, la cravatta annodata larga firmata Zegna.
– Giovanni, tutto bene? Volevo chiederle se può aiutarmi a risolvere questo problema di order administration?
– Mi dica.
-Vede non so come compilare il foglio excel iso number.
Lo guardo e capisco che è una scusa. Ha l’agenda in mano. Annota le mie reazioni. Mi sta studiando.
– Mi stupisce che lei non si ricordi. Con tutti gli appunti che ha preso.
– Giovanni sa bene che nessuno è infallibile e nessuno in un’azienda come questa è indispensabile.
– Lo so bene. Le invio subito una mail con tutte le istruzioni del caso.
– Grazie.
Prima di andarsene si liscia la cravatta e mi sorride con quel sorriso disincantato da happy hour.
Lo classifico nella categoria dei nemici. Da tre anni vivo circondato da nemici. Da quando le mie valutazioni hanno contribuito a far licenziare due operaie. Ero il loro responsabile e Manfredini voleva due nomi. Ho applicato le regole. Privilegiato le politiche aziendali. Ho fatto il mio dovere. Una aspettava un bambino, l’altra era straniera, non parlava bene l’italiano.

– Dai papà, disegnami un albero!
E’ sabato pomeriggio e fuori sta scendendo una pioggia improvvisa e primaverile. Nelle strade le ragazze e i ragazzi corrono a ripararsi nei bar. La voce di Tiziano Ferro sovrasta, per un istante, i rumori della strada. Poi la porta del bar si richiude.
– Che colori posso usare?
– Tutti quelli che vuoi, papà
Traccio, con il pastello nero, il profilo di un platano. Le radici nodose che affondano nella terra, i rami contorti. Ricordo la mano di mio padre che con leggerezza guidava la mia. Il segno scuro lasciato sulla carta, il tratto sottile delle montagne in lontananza. Ricordo la sua presenza paziente, i contorni precisi delle cose, i colori sfumati delle nuvole. Disegno con mio figlio, seduto accanto a me, che sbricia  mentre colora un drago. Quando ho finito lascio il disegno sul tavolo. Mio figlio lo guarda dubbioso.
– Ma papà perchè anche in primavera disegni sempre gli alberi senza foglie?
Non rispondo. Credo che mio padre non avrebbe accettato di diventare quello che sono diventato. Credo che mio padre non avrebbe fatto nessun nome.

E’ il primo lunedì di giugno. Trovo un post-it appiccicato al computer:
Ci vediamo alle 10.00 da Manfredini. Grimaldi.
Percorro il corridoio lentamente, il portadocumenti sottobraccio. Dentro: il file giudizieosservazioni.doc fresco di stampa. Busso.
-Entri Vignati la stavamo aspettando.
Manfredini sfoggia il sorriso dei giorni migliori, Grimaldi una cravatta a fiori su una camicia azzurra senza maniche.
-Ho letto attentamente la sua relazione. Mi sembra di capire che intende escludere l’extracomunitario.
– Credo che prima di ogni conclusione dovrebbe leggere la tabella in allegato.
– Lei ha forse qualche problema nei confronti degli extracomunitari?
– No. Le ripeto che dovrebbe leggere la tabella in allegato.
– La tabella l’abbiamo vista. E’ precisa, dettagliata. Lei ci vuole convincere che per il lavoro del magazzino servono due persone. Io le confermo che intendiamo gestire il magazzino con una sola persona. Dal suo report deduciamo che l’escluso è il marocchino.
Manfredini si sta irritando. L’altro mi osserva, gioca con la stilografia. Respira profondamente prima di prendere la parola.
– Vede signor Vignati, noi abbiamo un obiettivo. L’obiettivo è ridurre personale. Crediamo sia possibile fare a meno di un magazziniere.
– I dati della merce movimentate giornalmente dimostrano che servono due persone.

Grimaldi si liscia l’avambraccio abbronzato. Lui è il sergente buono. Il sergente cattivo prende in mano la situazione. Si avvicina alla scrivania, percorre con l’indice il profilo in rilievo del fermacravatta. Mi guarda duro:
– Senta Vignati. Non ci interessa la qualità del lavoro. Dobbiamo tagliare! Il magazzino deve essere gestito da lei più una persona. Preferisce essere lei l’escluso invece che uno di quei due?
Anche Grimaldi si avvicina con la sedia, mi sfiora la spalla con una mano:
– Vede Vignati, lei deve farci capire se è con noi o contro di noi.
– Vi prego di rileggere attentamente la relazione. Dai dati raccolti non è pensabile tagliare proprio nessuno!
– Vignati, cosa le succede? Anni fa non si sarebbe fatto nessun scrupolo. Superati i quarant’anni si diventa più indulgenti?
Il sergente cattivo ha alito che odora di caffè amaro.
– E’ stata una porcata quella che abbiamo fatto tre anni fa. Una vera porcata costringere quelle donne alle dimissioni.
Il sergente cattivo tamburella con le nocche il piano in cristallo della scrivania.
Il sergente cattivo sospira. Il sergente cattivo apre il primo cassetto: estrae una lettera.
– Pensavo di dover far più fatica con lei Vignati invece vedo che ci sta facilitando le cose. Lei non rientra nei nostri progetti futuri. Questa è una lettera di dimissioni. Se la firma le offriremo una buona uscita.
– Non se ne parla. Io resto dove sono.
– Ho l’impressione che se ne pentirà signor Vignati.
La voce del sergente buono si spegne mentre il telefono sulla scrivania comincia a squillare.

Ormai è estate. Il sole scivola dietro i profili dei palazzi. Dalle finestre aperte si sentono i televisori.
– Come è andata oggi?
Carla riesce a essere bella anche senza trucco. Le guardo le gambe muscolose, le spalle esili. Indossa un vestito nero con le spalline sottili.
– E’ andata che mi hanno chiesto di dare le dimissioni.
– Cosa? Giovanni, che cazzo è successo?
– E’ successo che questa volta non ho voluto far fuori nessuno e allora hanno deciso di farmi fuori.
La guardo, sembra sul punto di piangere. Sta pensando a cosa sarà di nostro figlio e di noi con uno stipendio solo e delle vacanze e dei progetti per una casa nuova. E invece rimane in silenzio e mi sorride e mi abbraccia come non faceva da tempo e sento il suo cuore battere forte contro il mio petto e allora la borsa che ho a tracolla cade a terra e la stringo e piango e lei ancora non dice niente mi cerca con le labbra. Trova la mia bocca mi bacia. Non smette di baciarmi. L’abbraccio si allenta senza perderci con gli occhi.
– Dov’è il piccolo?
– E’ in camera con un suo amichetto. Ho apparecchiato per quattro. Si ferma a mangiare con noi.
-Papà, papà vieni ho due sorprese per te.
Mi corre incontro con un disegno in mano.
– Guarda, ho colorato il tuo albero con tante foglie verdi e lui è il mio amico Moustafa.
Moustafa è nella penombra della stanza: le braccia dietro la schiena, la testa bassa, due occhi scuri illuminano una faccia scontrosa.

Taglio con la forbice un pezzo di nastro. Sigillo l’ultimo lembo di cartone. Sulla scatola, scrivo con un pennarello nero: nome e cognome. I due magazzinieri sono fermi sulla porta dell’ufficio. Mi guardano in silenzio.
– Buona fortuna Vignati.
Lo dicono insieme, sottovoce.
Accompagno con un cenno del capo, una smorfia che vuole essere un sorriso. Mi dirigo verso l’uscita. Incrocio lo sguardo della ragazza alla reception. Mi siedo composto su una delle poltrone in alcantara. Respiro. Rimango in attesa di un nuovo incarico.

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