Il cuore è italiano, ma testa e gambe sono sempre più francesi. È il destino del settore food & luxury tricolore, sempre più oggetto di scorribande da parte dei cugini d’oltralpe e non solo. Le acquisizioni della Pasticceria Cova di Milano e di Loro Piana da parte di LVMH sono solo le ultime di una lunga serie, con perle dal nome di Gucci, Bulgari e Fendi, tanto per citare i più noti, già finiti in mani transalpine. Per non parlare del settore energia. Gli sciovinisti del giorno dopo gridano alla disgregazione del made in Italy, evocando la desertificazione industriale e l’oltraggio al nostro prestigio imprenditoriale. Quasi che si riproponesse la campagna d’Italia del 1796, in cui Napoleone razziò il nostro Paese delle migliori opere d’arte, esibite ai parigini come trofeo di guerra. Cari amici, questo è il mercato. Piuttosto che abbaiare alla luna, vale forse la pena fare un po’ di autocritica. Per quali ragioni le nostre aziende sono diventate prede fragili e indifese? Perchè non riusciamo ad essere a nostra volta predatori? E’ tutta e solo colpa di un “sistema Paese” che non aiuta – ed anzi spesso ostacola – lo sviluppo delle sue imprese? Non solo. E’ sufficiente osservare i nostri difetti, quello che dovremmo essere e che ancora non siamo.

Primo aspetto. L’imprenditore italiano è un uomo solo al comando: geniale, impulsivo, istintivo, accentratore; è spesso poco capitalizzato e fortemente dipendente dal credito delle banche. Quelli che sono i suoi principali pregi, tradotti in prodotti spesso inarrivabili, si trasformano in gravi difetti nella competizione ad alti livelli, dove serve un vero gioco di squadra, ferrea programmazione gestionale, distributiva e finanziaria, oltre ad una disponibilità di cassa rilevante. Non si spiegherebbe perché abbiamo, tra le tante eccellenze, la migliore pizza ed il miglior caffè del mondo, ma Pizza Hut e Starbucks non risultano essere di proprietà delle famiglie Rossi e Russo. E perché nessun connazionale sia mai riuscito ad imporre il nostro vessillo sulla diffusione dei nostri prodotti su scala mondiale. Allora, forse, dovremmo riflettere sul nostro modo di intendere il “fare impresa” e sul modello stesso dell’impresa familiare, troppo a lungo difeso sotto la sigla ingannevole di “small is beautiful”.

Altro aspetto fondamentale, di assoluta attualità, è di tipo finanziario: complice anche la massa di liquidità immessa di recente sui mercati, le grandi multinazionali stanno rastrellando risorse finanziarie attraverso l’emissione di obbligazioni societarie, i corporate bond. Risorse disponibili per programmi di crescita interna, certo; ma anche per programmi di acquisizione di altre aziende appetibili. Ebbene, le aziende francesi e tedesche pagano queste risorse ad un tasso di gran lunga inferiore rispetto ai competitor italiani, risultandone fortemente avvantaggiati. E qui ritorna, tra gli altri, il problema dello spread e della credibilità del sistema Paese.

Permettetemi infine di chiudere con una nota forse un po’ polemica ma molto sentita. L’impressione che si ha osservando le vicende di casa nostra è che gli imprenditori di primo piano siano troppo interessati agli intrecci con la politica e alla sterile difesa dello status quo. Risultano in questo senso incomprensibili le zuffe di questi giorni su RCS, tempio di un mondo e di un potere che fu. Il provincialismo è un lusso che non ci possiamo più permettere e salotti e talk show andrebbero avvicinati con una frequenza di gran lunga inferiore ai comitati strategici dell’azienda che si governa. Pianificare le proprie mosse sui mercati esteri, curare il processo produttivo e la distribuzione, innovare il prodotto, programmare le finanze è infinitamente più importante della percentuale acquisita in Mediobanca o della partecipazione ai dibattiti di Ballarò sui nostri eterni, irrisolti, problemi.

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