Il figlio reietto è stato accompagnato alla porta. Nel pieno di una campagna elettorale poco ispirata nei contenuti, tutti fanno a gara nello smarcarsi dalla paternità del redditometro, lo spauracchio del momento. L’Agenzia Entrate si affanna ad assicurare che l’obiettivo dello strumento è quello di colpire “l’evasione più spudorata” (parola del vicedirettore delle Entrate, Di Capua), cercando così di spegnere il fuoco mediatico nel frattempo divampato. Eppure, entrando nel dettaglio, si scopre che i controlli riguarderanno circa 40.000 contribuenti l’anno (su un totale complessivo di oltre 40 milioni), lo 0,1% della platea dei pagatori di imposte, non esattamente una retata. Inoltre, vi saranno franchigie di non punibilità, pari al 20% degli scostamenti tra il dichiarato dal contribuente e quanto risultante alle Entrate.

Dunque il problema dov’è? Innanzitutto sta nei bizantinismi che regolano il funzionamento di questo strumento. Il meccanismo del redditometro è principalmente basato sul monitoraggio di 100 voci di spesa, suddivise in 7 sottogruppi, attribuibili a contribuenti ripartiti su 5 macroaree geografiche. All’interno di tali voci, ve ne sono alcune già conosciute al Fisco (immobili, mutui, assicurazioni vita ed altro ancora, tramite le banche dati dell’Anagrafe Tributaria); per voci restanti, verrà utilizzato un valore medio statistico per aree territoriali teoricamente omogenee. Ciò a dire che una famiglia di Milano con due figli si vedrà attribuito un determinato reddito in base ad una statistica “per tipi di spesa”; la stessa presunzione potrà essere attribuita ad un abitante di un Comune, anche piccolo e periferico, rientrante nella stessa area territoriale. Già questa è un’evidente stortura del meccanismo, che ricorda la statistica dei polli di Trilussa.

Un ulteriore problema è che, per dimostrare l’effettivo scostamento dalle medie Istat, il cittadino dovrà tenere un ordinato archivio della documentazione di pagamento. Data la retroattività del meccanismo all’anno 2009 (altro aspetto molto discutibile) il cittadino dovrà ripescare il bonifico fatto per il frigorifero comprato nel 2010 o per la vacanza in Puglia dell’estate scorsa. E se una data spesa non la si è proprio sostenuta? Non è dato sapere come comportarsi. Ancora una volta, si capovolge l’onere della prova a carico del contribuente, sempre più suddito e costretto ad affrontare difficoltose ricostruzioni di movimenti finanziari anche remoti. Questo accade nel Paese in cui le amministrazioni pubbliche hanno a disposizione ben 129 banche dati (Fonte: Anagrafe Tributaria), in cui confluiscono informazioni di ogni tipo, evidentemente disparate e non coordinate.

Con questo non si vuole affatto sottovalutare l’importanza di una seria lotta all’evasione, flagello che fa scomparire dalle casse dello Stato circa 180 miliardi l’anno (intorno al 20% del Pil). Anzi, nella lotta a questo italico male, crediamo che sia senz’altro ragionevole ricorrere alla misurazione empirica della capacità contributiva, cioè risalire al reddito effettivo partendo dalla capacità di spesa. Ma non possiamo accettare che un cittadino venga intimidito da un meccanismo che tenta di ricostruire sommariamente le sue abitudini di vita. Noi crediamo che un cittadino debba essere considerato innocente, e non colpevole, fino a prova contraria. E pretendiamo pure di rilanciare i consumi?

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