Come ben noto, gli investimenti esteri in Italia trovano un grande ostacolo, fra l’altro, nel sistema della nostra giustizia civile: lento, macchinoso, mal funzionante. Occorrono tre gradi di giudizio per ottenere una sentenza definitiva; e tre gradi di giudizio corrispondono, nella pratica, a molti anni. Ma le cose stanno cambiando: al punto che oggi incontra alcuni limiti lo stesso principio del triplice grado di giudizio, da sempre vigente nel nostro ordinamento e fondato su ragioni profonde (perché i modelli processuali dipendono a loro volta dai modelli di organizzazione dello Stato, come osservava lo studioso di diritto comparato Mirjan Damaška in un bellissimo saggio pubblicato dal Mulino nel 1991, I volti della giustizia e del potere). Del resto, è vero solo teoricamente che alla moltiplicazione dei gradi del giudizio corrispondano davvero maggiori garanzie che la sentenza sia giusta; e comunque, come si sa, che la giustizia sia celere non è meno importante dell’esigenza che sia, appunto, anche la più giusta possibile.
Ma andiamo per gradi:
- dapprima sono state modificate, nel 2006, le norme relative al giudizio di cassazione, nel senso che sono stati resi ancor più rigorosi di quanto già non fossero i limiti entro i quali è possibile ricorrere alla Corte (davanti alla quale le sentenze possono essere impugnate solo per violazioni di legge).
- ora il Decreto Sviluppo ha modificato anche le norme relative al giudizio d’appello. In particolare, è stato fatto salvo il principio secondo il quale le sentenze di primo grado possono essere impugnate anche solo perché ritenute ingiuste. Con un limite significativo però: il giudice dell’appello, anche “prima di procedere alla trattazione”, potrà dichiarare inammissibile l’impugnazione quando la valuti priva di “una ragionevole probabilità di essere accolta”; il che significa che l’impugnazione potrà essere dichiarata inammissibile in virtù di una cognizione sommaria, simile a quella che il giudice compie in sede cautelare. La dichiarazione di inammissibilità resa nell’ambito del giudizio d’appello lascerebbe aperta solo la possibilità di ricorrere alla Corte di Cassazione, la quale, come si è detto, non è giudice del merito ma esclusivamente di legittimità. Tutto ciò a patto che non si tratti di giudizi che prevedano l’intervento obbligatorio del pubblico ministero (tassativamente elencati dall’art. 70, primo comma, del codice di procedura civile).
Solo l’applicazione delle norme potrà testimoniarne l’adeguatezza rispetto al fine di rendere più celeri i tempi della giustizia, perché esiste sempre uno scarto fra norme scritte e norme applicate; così come, più in generale, fra intenzioni e realtà. Questo potrebbe anche essere il bello del diritto, verrebbe da dire: non fosse per le implicazioni sociali ed economiche che ne derivano. Di tali implicazioni dovrebbero farsi carico per primi tutti coloro che il diritto sono chiamati ad applicare, in concreto: giudici e avvocati. Perché è da loro, forse più ancora che dal legislatore, che dipende a ben vedere il funzionamento del sistema.
1 comment
Aureliano 67 says:
Set 21, 2012
Contributo molto lucido e chiaro, personalmente ho imparato qualcosa che non sapevo. Sulla conclusione però sono d’accordo solo in parte: non è giusto che il cittadino debba “sperare” di imbattersi in giudizi e avvocati coscienziosi, quasi che la tutela giuridica dei suoi diritti sia legata al fatto di avere un “colpo di fortuna”… il cittadino, al contrario, deve essere a mio avviso tutelato da un sistema il più possibile “giusto”, cosa che oggi non è. E allora: tempi biblici per le udienze, impunità dei giudici che commettono gravi errori, atteggiamenti sfacciatamente corporativi ecc. ecc: tutte queste cose vanno affrontate – e subito – con riforme serie che mettano al centro i cittadini (e le imprese!) e non lasciate alla buona volontà e correttezza dei singoli.
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