Questo articolo non vuole avere la pretesa di rappresentare il fenomeno cinese, già discusso e analizzato in diversi saggi economici. Vorrei fornire solo alcuni spunti di riflessione e lasciare la parola ai lettori.

Primo punto – ormai è noto che la Cina è una realtà economica di primaria grandezza. E’ interessante ricordare come la Cina abbia fatto ad affermarsi: non hanno le regole di produzione ed i vincoli che noi europei ci siamo posti, vuoi per salvaguardare l’ambiente vuoi per garantire migliori condizioni di lavoro;  hanno quindi una manodopera a basso costo e sono terribilmente determinati nel raggiungere gli obiettivi (lo vediamo anche con i cinesi di casa nostra).

Secondo punto – fino ad ora solo sporadiche iniziative di dazi antidumping o anti-sovvenzione sono servite ad attenuare l’invasione dei prodotti cinesi sui nostri mercati occidentali. Non a caso l’industria della produzione dei pannelli fotovoltaici è stata distrutta dalla massa di pannelli cinesi venduta a prezzi da saldo e negli Usa ora si discute di dazi. Il problema è che la globalizzazione permette di ottenere merci a prezzi ridotti provenienti da tutto il mondo ma il dubbio è se ciò porti veramente ad un vantaggio per i consumatori finali. Può essere vero in parte. Attualmente chi si arricchisce è l’importatore, a danno di colui che invece produce localmente.  E chi produce pannelli fotovoltaici con contributi e finanziamenti statali, come i cinesi, ora può permettersi di sfornare panelli attraverso grandi impianti e invadere il mondo sfruttando le economie di scala.

Terzo punto – anni fa ho comprato una casa e ho visto una bella lampada da tavolo ereditata dal vecchio proprietario. Probabilmente era l’ultima made in Italy. Allo stesso prezzo (o poco meno) ora si compra una lampada made in China. E non penso che il consumatore italiano, in questo caso, ci abbia guadagnato: occorre proprio importare un prodotto a basso contenuto tecnologico dall’estremo oriente di qualità dubbia ad un prezzo di poco inferiore? Al netto dei costi di trasporto e dei ricarichi dell’importatore, quella lampada cinese dovrebbe essere venduta a meno della metà: allora sì che si potrebbe parlare di un qualche vantaggio per il consumatore italiano. Invece l’unico esito è che in Italia non si produce più quella lampada e si spendono tonnellate di petrolio per farla giungere dall’estremo oriente, con un danno ambientale ed un danno sociale. I lavoratori italiani a casa e il lavoratore cinese sfruttato: così non va.
Le economie di scala, senza sovvenzioni, dovrebbero essere le uniche variabili che portino ad una concentrazione di produzioni in un determinato luogo del Mondo (come è accaduto per i prodotti elettronici). Spassionatamente sono favorevole all’introduzione di dazi doganali su tutti quei prodotti non di interesse nazionale, non riutilizzati dall’industria manifatturiera, di basso contenuto tecnologico e che possono essere prodotti in Italia ad un costo finale per il consumatore simile a quelli importati. Invece qui succede che la catena di importatori, grossisti e dettaglianti portino sugli scaffali dei vestiti cinesi a prezzi simili a quelli italiani, rimpinguando le loro casse e senza portare valore aggiunto.  E invece la filiera dei vestiti italiani  cerca di distinguersi applicando prezzi più elevati. Quindi il consumatore in questo caso non può che avere effimeri vantaggi. E se i dazi non si possono sempre applicare, vi sono molte altre misure simili, ad esempio eliminando, con fortissime multe a sfavore dell’importatore, tutti quei prodotti che non rispettino determinate norme di salute (abbigliamento, elettronici, alimentari, cosmetici, giocattoli e oggettistica varia). Occorre una linea molto dura su questo fronte.
Attenzione: dopo avere distrutto le produzioni locali, i cinesi avranno strada libera per imporre prezzi più elevati in regime di semi-monopolio. E la Cina sa che dovrà  percorrere la stessa strada dei paesi più moderni, salvaguardando l’ambiente e garantendo condizioni di lavoro più sostenibili (le rivendicazioni sindacali stanno già aumentando). Non a caso alcune industrie cinesi stanno delocalizzando in Cambogia, dove il costo del lavoro è la metà di quello cinese.

Quarto punto – il debito delle amministrazioni provinciali cinesi ammonterebbe a 2.300 miliardi di dollari. Si sono indebitate fino al collo per fare le infrastrutture in tempi brevi. Ora molte sono in default. Se si trasferisce questa somma al debito dello stato cinese, la Repubblica Popolare diventa il secondo stato al mondo ad avere il più alto debito pubblico dopo gli USA e il rapporto debito/PIL passerebbe dal 17% all’80%. E la bolla immobiliare cinese? Se ne parlava dal 2009 e ora è attualità. Le banche hanno prestato un fiume di miliardi alle imprese immobiliari ma a Shanghai interi quartieri di grattacieli privi di gente offrono una visione desolante.

In sintesi, la corsa della Cina può essere servita nel passato anche al mondo occidentale. Ai consumatori, che hanno avuto accesso a beni prima proibitivi,  e anche ai produttori nazionali,  permettendo solo ai più efficienti di andare avanti. Ora la Cina potrebbe essere ancora più aggressiva perché la macchina cinese sta rallentando e ciò porterà a tensioni sociali interne. Il mondo occidentale deve attrezzarsi maggiormente alla rinnovata forza d’urto. La Germania ha scelto di allearsi economicamente con la Cina e l’interscambio tra Cina e Germania è arrivato a 144 miliardi di euro ed è destinato ad aumentare. Ma visto che anche l’Italia ha una buona presenza in Cina, occorre una politica comunitaria in cui ognuno non vada per conto proprio. Che si pongano le basi per un rapporto di forze più equilibrato tra UE e Cina, facendo fronte comune ed eliminando la speculazione. Che ognuno produca a casa propria e vi sia l’interscambio quando ciò porti ad un benessere reciproco.

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