La pressione fiscale è pari al 44,7% del Pil e, in poco più di due anni, raggiungerà la cifra mostruosa del 46,5 %. A fronte di questa evidenza, che tanto pesa sul conto economico di imprese e famiglie, la “macchina pubblica” contiene le uscite principalmente con la riduzione dei trasferimenti agli enti locali. Peccato che Comuni, Province e Regioni aumentino a loro volta le entrate, dovendo fornire una pur minima dotazione di servizi alla collettività. Anche qui, con un aumento della tassazione a valle. In parallelo, l’incisiva e “spettacolare” lotta all’evasione inizia a produrre qualche buon risultato e c’è già chi parla di un “tesoretto”, la cui destinazione non mancherà di animare il dibattito politico. Ma il premier Monti, glaciale, ha smorzato gli entusiasmi, dicendo che quanto incassato serve per il consolidamento dei conti pubblici. Il punto è che la riduzione del debito ed il conseguimento del pareggio di bilancio, pur ovviamente necessari per rimanere al tavolo del mondo che conta, non possono passare sempre e soltanto da un aumento della pressione fiscale.  Ed invece, ahimè, è esattamente quello che hanno fatto finora tutti i governi, tecnici e non. Con un dibattito continuo sulla convenienza ad intervenire sulle imposte dirette piuttosto che sulle indirette (IVA ma ultimamente anche l’imposta di registro, con la rivalutazione degli estimi) e sempre in un’ottica di cassa, mai con orizzonte strategico. Vi è però un argomento che rimane sempre tabù: la famigerata tassazione dei patrimoni.

Da uno studio di Bankitalia pubblicato sul Corsera di recente, emerge che anche i giovani che hanno un lavoro stabile faticano a realizzare risparmio;  il benessere nazionale poggia sulla detenzione di patrimonio dei più anziani, accumulato in anni passati che paiono lontanissimi. Il reddito conta sempre di meno, un po’ perché spesso parzialmente occultato al Fisco (si vedano le statistiche imbarazzanti sul reddito medio dichiarato dagli italiani, pubblicate qualche giorno fa) ed un po’ perché appena sufficiente a far fronte ad una dignitosa sopravvivenza. E allora, perché non iniziare un percorso di graduale inserimento a regime di un’imposta patrimoniale, leggera il più possibile, ma stabile? Questo consentirebbe di inserire a gettito un’entrata che mitigherebbe ulteriori prelievi, diretti o indiretti che siano, e che potrebbe aprire la strada a misure di riduzione della pressione fiscale su imprese e lavoro, oltre che di sostegno alla crescita reale. Come abbiamo già sostenuto in passato, sarebbe un segnale di vera equità e darebbe un messaggio di necessaria condivisione dei sacrifici verso un bene comune. E magari consentirebbe anche di intervenire sull’Irap, vera anomalia italiana, beffarda nella modalità di applicazione (colpisce anche le imprese in perdita economica!) ed incombente per un’ulteriore 10% reale sul reddito.

In conclusione, non si può perseguire il rigore dei conti pubblici, pur necessario, sempre e soltanto con l’aumento delle entrate tributarie a carico di chi produce reddito e posti di lavoro. Un esame più lungimirante della situazione economica reale impone una riflessione sulle impostazioni di una politica tributaria nuova, che non vada a frustrare ogni iniziativa imprenditoriale con una perenne e insopportabile zavorra. E allora un primo passo potrebbe essere quello di spostare qualche richiesta di sacrificio dal reddito al patrimonio, a beneficio, lo ribadiamo, di un “sollievo fiscale” su alcuni ambiti produttivi strategici, che generino crescita e occupazione. I nostri governanti avrebbero solo l’imbarazzo della scelta.

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