La legge elettorale torna prepotentemente agli onori delle cronache, come succede ad ondate periodiche da qualche anno a questa parte. Un ultimo tentativo di mettervi mano fu fatto nel 2012, all’epoca del governo Monti: le forze politiche si diedero l’imperativo di non tornare mai più al voto con il Porcellum, ritenuto la causa principale dell’ingovernabilità. Mesi e mesi di interminabili dibattiti e reciproci ultimatum, poi sappiamo bene come è andata a finire. Oggi ci si riprova e, segnale non proprio incoraggiante, c’è sempre un esecutivo in bilico sullo sfondo. I discorsi da fare sarebbero infiniti; mi limito a tre rapide considerazioni.

La prima.  Con la legge elettorale non si mangia, certo, ma si può governare in maniera stabile, se la si costruisce in modo intelligente e non strumentale. È auspicabile un rinnovamento dello spirito maggioritario ed una legittimazione netta a governare per la coalizione vincente, socialdemocratica o liberale che sia. Su questo, la bozza della nuova proposta di legge, ribattezzata “Italicum”, è molto spinta, attribuendo un premio di maggioranza del 18% alla lista o coalizione che raggiunge il 35% (si sta discutendo per elevarlo al 37%). Non esattamente l’esaltazione della democrazia pluralista in stile prima repubblica, ma probabilmente una medicina necessaria, da ingurgitare per evitare continue crisi di governo, rimpasti, voti di fiducia e psicodrammi annessi. Basta, non ne possiamo davvero più, anche a costo di rinunciare a una porzione di rappresentanza.

La seconda considerazione riguarda il metodo. Il panorama politico del nostro Paese è sempre più a tendenza leaderistica (si pensi alla sovraesposizione dei vari Renzi, Berlusconi, Grillo), ma con un dna a profonda “trazione proporzionale”, in base al quale le riforme devono essere sempre “ampiamente condivise”. Risultato: le riforme non si riesce mai a farle. Ed allora, piuttosto dello sterile chiacchiericcio, meglio una “proposta forte”, che ponga sul piatto la necessità di riconoscere una garanzia di stabilità a chi vince le elezioni, senza dover continuamente render conto a portatori di interessi troppo particolari. Troppi sono gli esempi di partiti con un seguito elettorale molto modesto che hanno condizionato per anni le sorti del Paese.

Terza ed ultima considerazione. La bozza di riforma non prevede l’indicazione delle preferenze: sono previste liste di candidati espressi dalle segreterie dei partiti, pur con circoscrizioni più piccole e liste più brevi. Tale aspetto rappresenta un’altra evidente contraddizione dei principi strombazzati dalla classe politica in questi anni: la presenza di un “Parlamento di nominati” era universalmente considerato come il segnale più indigesto del rapporto Palazzo-cittadini, una stortura da superare a tutti i costi. Ed allora, che cosa fanno i due principali competitors politici, riuniti intorno ad un tavolo? Ripropongono le liste bloccate! Intendiamoci: nella famosa Prima Repubblica, il sistema delle preferenze ha spesso portato ad alimentare clientele territoriali da macchietta, in stile Cetto La Qualunque, tanto da ispirare un referendum abrogativo. Però i tempi sono di nuovo mutati, è ora di tornare all’indicazione diretta dei parlamentari: lasciando carta bianca alle segreterie dei partiti, abbiamo visto come si va a finire.

Tante sarebbero ancora le cose da dire. Per il momento ci possiamo solo consolare con la dichiarata incostituzionalità del Porcellum, che riapre la strada alla precedente legge, il Mattarellum. Si accettano scommesse: sarà quest’ultima o l’Italicum la legge che ci accompagnerà alle urne?

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