Renzi si tiene stretta la prima pagina, appropriandosi di un argomento troppo spesso relegato a dotte discussioni tra tecnici: il lavoro. Fin qui tutto bene, il tema è di quelli seri, che meritano la massima considerazione. Il neo segretario, con il suo “Jobs Act”, prova ad affrancarsi dall’ideologismo che ha troppo spesso caratterizzato le riforme varate negli anni dal centro sinistra, attanagliato tra il dilemma shakespeariano sull’articolo 18 e le pesanti ingerenze di una parte del sindacato. Dunque, ecco in sintesi le direttrici della proposta renziana di riforma del lavoro:
- via alla semplificazione e riduzione del numero di contratti applicabili nel mondo produttivo
- contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti nell’arco di un periodo triennale
- assegno universale per chiunque resti disoccupato, con contestuale eliminazione della cassa integrazione e perdita di tale beneficio per chi rifiuti più di un’offerta di lavoro
- eliminazione della figura del dirigente pubblico a tempo indeterminato
- inserimento della presenza sindacale nei cda delle grandi aziende (ispirazione dal modello tedesco)
- riordino del sistema della formazione professionale, per il quale sarà necessaria una più puntuale rendicontazione dei fondi pubblici ricevuti da parte degli istituti coinvolti.
Molti i titoli giornalistici che si possono spendere, ma, spenti i fari dei talk show, occorrerà entrare nel merito della fattibilità e convenienza reale delle singole proposte.
Il pregio di questa iniziativa è il contenuto innovativo e la discontinuità con alcuni tabù ideologici della sinistra. Il difetto è nella solita vaghezza circa le coperture, la lunga tempistica (di otto mesi) prevista per l’incubazione di questa possibile riforma, il fatto che per diversi comparti del mondo industriale e dei servizi (cultura-turismo-agricoltura, Made in Italy, Ict, Green economy, Nuovo Welfare, Edilizia , Manifattura) vi sarà un piano distinto all’interno del Jobs Act. E poi, anche in questa prima bozza a marchio PD, emerge la debolezza nel trattare la risoluzione di un nodo decisivo, già espresso in precedenti articoli su questo blog: la distanza siderale tra il sistema universitario e della formazione in genere ed il mondo reale, che accoglie troppo spesso aspiranti neoassunti impreparati a fronteggiare le problematiche concrete del vivere quotidiano delle imprese. Il mondo dell’istruzione tecnica dovrebbe generare l’interesse delle aziende a collaborazioni durature, con l’istituzionalizzazione di interscambi che consentano al futuro laureato o specializzando di entrare in un mondo a lui già noto. Fin quando non capiremo che il nostro Paese non può più permettersi decine di corsi di laurea avulsi dal mondo del lavoro, e che questo è un aspetto fondante di una vera riforma, continueremo ad assistere a manovre parziali, non organiche e sostanzialmente poco utili.
A margine di tutto ciò, vien da pensare che lo scaltro segretario del PD utilizzi l’argomento quale manifesto per la sua prossima ascesa alla leadership per il governo nazionale, più che per un reale contributo al dibattito parlamentare nel breve termine. D’altronde, che Letta sia un re senza popolo è un dato di fatto, che il suo cammino a palazzo Chigi sia a breve scadenza altrettanto. Ed allora, di fronte al fervore propositivo del massimo esponente del suo partito, vien da chiedersi se qualcuno si renda conto che il tempo per i massimi sistemi a scopo elettorale, fini a se stessi, è ampiamente scaduto.
8 comments
ginobigio says:
Gen 17, 2014
Condivido pienamente anche se non sono in grado di entrare in aspetti così tecnici.
Vorrei invece introdurre un rilievo linguistico sull’uso dell’inglese ormai anche a livelli istituzionali.
Prima la Lega, ferrea vestale del dialetto lombardo, con Maroni istituisce il Ministero del Welfare, poi il Governo Letta nomina il Commissario alla “spending revew” (nel processo tributario esiste un “commissario ad acta ” ma nella nostra madre lingua) ed ora il Sindaco di Firenze(dove il “lumbard” Alessandro Manzoni andò a lavare i panni in Arno per il suo Promessi sposi), per non essere da meno, lancia il “jobs act”!
Mentre in Italia si fa a gara a scimmiottare spesso a sproposito l’inglese, da una ricerca dell’Università Sapienza di Roma risulta che ora “l’italiano è la quarta lingua studiata nel mondo simbolo di genuinità, eleganza e fascino”.
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lorella pozzi says:
Gen 17, 2014
Michele, condivido appieno le tue conclusioni, ho percepito anch’io una sorta di”lancio pubblicitario”.
I politici “maturi” e i giovani “rampanti” devono capire che i cittadini italiani di qualsiasi estrazione, lavoro e professione, nonostante lo “stress” e la perdita di risorse a cui sono stati sottoposti, godono ancora di una propria intelligenza, acume, intuizione e autonomia di critica al punto che alla sola lettura del titolo della proposta, hanno “odorato” puzza di imbroglio.
Dici bene Gino: era proprio necessario chiamare una proposta di riforma del lavoro, “jobs act”? Renzi ed i suoi collaboratori sanno quanti Italiani conoscono la lingua inglese? E’ vero che viviamo in un mondo “globale” e la lingua inglese “impera”; altrettanto vero è che il popolo elettore italiano è mediamente anziano e che l’istruzione pubblica italiana ha scoperto l’importanza di insegnare la lingua inglese soltanto da pochi anni! A Renzi chiederei: caro Matteo come la mettiamo?
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alice franco says:
Gen 18, 2014
Sentivo da tempo ai tg parlare del famigerato Jobs Act di Renzi, ma se non l’avessi letto qui non avrei mai saputo dire in cosa consistesse, me lo sono perso solo io o il contenuto è “casualmente” sfuggito ai più? Non ho competenze per giudicare, noto solo che il contratto a tutele progressive era un’idea precedente di Tito Boeri che mi sembrava valida. Le altre proposte sono interessanti, ma bisogna sempre vedere come intende applicarle. Da quel poco che so muovendo i primi passi nel mondo del lavoro e vedendo i miei amici, mi sembra che l’attuale apparato contrattuale e di regolamenti in genere sia effettivamente troppo rigido, sicuramente in entrata. Leggendo gli annunci di lavoro salta all’occhio una cosa: gli stage o tirocini, considerati giustamente un modo per entrare nel mondo del lavoro facendo un’esperienza significativa, durano 3 o 6 mesi e mi pare che non possano essere prorogabili (ricordo di aver letto da qualche parte che non si potesse fare più di uno stage, non ricordo se fosse solo una proposta o un effetto della legge fornero); peccato però che lo stadio successivo sia una figura junior che in genere richiede un’esperienza pregressa di 2 anni… e uno dove se la fa l’esperienza nel frattempo?? Contratti di apprendistato non ne ho mai visti offerti per un lavoro impiegatizio (si potrebbe parlare anche dell’età: il contratto di apprendistato è valido fino ai 29 anni, io per esempio ho finito il dottorato, devo iniziare a lavorare, ma ho suonato i 30 anni e non ci posso accedere… oppure se avessi fatto un altro mestiere e ora volessi cambiare percorso? Significa che la prima scelta fatta ti condiziona per tutta la vita? Bella prospettiva!). Il totale scollamento poi tra la formazione universitaria e le esigenze delle aziende è un dato ineccepibile. Sicuramente le università dovrebbero impostare gli insegnamenti in modo un po’ più concreto; d’altro canto è anche vero che moltissime aziende vogliono gente giovane che però sappia già fare il lavoro solo perché non considerano più l’idea di formare il proprio personale: mi sembra un po’ troppo comodo pretendere la pappa pronta!
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Michele D' Apolito says:
Gen 19, 2014
Alice ha centrato il problema, ci si è troppo spesso bloccati sulla possibilità di licenziare, facendo guerre di religione sull’estensione dell’articolo 18 anche per le imprese sotto i 15 dipendenti. Anche oggi c’è chi, all’interno del sindacato, prova a buttare sul piatto l’argomento valori e ideali del diritto alla tutela del posto di lavoro.
Il vero problema è che le aziende oggi, se assumono, fanno un investimento (oneroso) in una risorsa troppo spesso scarsamente qualificata, soprattutto se giovane. L’apprendistato, dici bene, per come è congegnato è del tutto inadeguato all’esigenza di formare il neo assunto e viene percepito dalle aziende come unica valvola di risparmio su contributi.
Insomma, a mio parere si deve lavorare su due fronti:
– flessibilità in entrata, ampliando la platea di contratti a termine, per consentire ad un’azienda di testare e formare il lavoratore, aumentando i livelli retributivi minimi degli stessi: ciò a dire che, se vuoi avere le mani libere e interrompere il rapporto, pagherai qualcosa in più al lavoratore (con annessi contributi), ma non correrai il rischio di fare improbabili contratti a progetto, dove non esiste il progetto e si rischia una maxi sanzione se ti scoprono.
– istituzionalizzare dei canali di collegamento diretto tra mondo della formazione, non solo universitaria, e mondo del lavoro, dando incentivi mirati alle imprese che sviluppano percorsi di tirocinio sul campo parallelo alla formazione stessa.
A margine, per non alimentare una società di precari senza progetti e senza famiglia, potenziare dei fondi di garanzia bancari per consentire ai giovani privi di contratti a tempo indeterminato di contrarre mutui, per acquistare casa e realizzare il loro percorso di vita.
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Michele D' Apolito says:
Gen 19, 2014
Intendiamoci, per completare il pensiero: non è che rivendicare alcuni valori e la tutela dei diritti sia di per se stesso sbagliato. Il fatto è che per troppi anni si è discusso solo di quello, mentre la nostra economia andava a picco, impedendosi alcune riforme che andassero nella direzione di un mondo diverso da quello del 1970, anno di genesi dello statuto dei lavoratori.
Mi vien quindi da pensare che chi propugna insistentemente questi valori lo faccia esclusivamente per giustificare la sua stessa esistenza, rimanendo arroccato in un modo di vedere il mondo tipico del secolo scorso, dove il datore di lavoro era solo il “padrone”, nella sua accezione spesso più deteriore.
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alice franco says:
Gen 20, 2014
Grazie per la tua risposta, Michele, mi trovo d’accordo con la tua analisi e le tue proposte!
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gino berto says:
Gen 18, 2014
Grazie all’Autore ho capito che cos’è sto job act. Non so se Renzi o altri politici l’hanno mai spiegato e chiarito così bene… sarebbe bello fare una ricerca sulla popolazione in merito alla comprensione di questa proposta. Ma a che servirebbe, tanto nessun politico farebbe tesoro del risultato. Quel che conta è lo scoop!
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david p says:
Gen 20, 2014
E’ di questi giorni la denuncia di un ragazzo brillantemente laureato in economia a Genova a metà del 2012: dopo un anno e mezzo, nemmeno un offerta di stage non retribuito! Nulla di nulla, a parte una proposta di volantinaggio.
Problema nel problema: il ragazzo vorrebbe fare il praticantato per la libera professione di commercialista, e nessuno tra i numerosi studi intervistati ha dato la sua disponibilità.
I due punti indicati da Michele e le criticità indicate da Alice mi trovano perfettamente d’accordo: flessibilità in entrata e collegamento scuola-lavoro sono le priorità per i giovani. Ma facciamo presto: l’economia mostra una timida ripresa, e l’assenza di una legislazione adeguata fa perdere altro preziosissimo tempo. Da questo punto di vista, anche l’esperimento di Pordenone raccontato da Francesco potrebbe rappresentare un vero punto di svolta: non solo per la salvaguardia di realtà esistenti ma anche – perché no – per lo start up di nuove imprese.
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