Una storia che merita di essere raccontata. Un’altra delle tante eccellenze italiane, meno nota al grande pubblico ma ben nota agli operatori del settore, dopo più di cent’anni di storia passa in mani straniere. Un sincero ringraziamento all’amico Giuseppe Calì, direttore generale di Cesare Bonetti, per aver voluto condividere con Labeconomy questa esperienza vissuta e gestita in prima linea.

1. Ingegner Calì, ci può riassumere in poche parole la storia di Cesare Bonetti e l’ambito di attività?
Nata nel 1905, nel primo dopoguerra la società Cesare Bonetti diventa licenziataria di Klinger, azienda austriaca produttrice di valvole a pistone. Con gli anni, Bonetti intraprende un percorso industriale autonomo: dai prodotti per caldaie a bassa pressione si muove verso le valvole per alta pressione acquisite prima da Breda Meccaniche Bresciane e poi da CMI Pasquini, fino all’ingresso nel settore nucleare, anche attraverso accordi con l’americana Kerotest. Oggi, i mercati principali sono fondamentalmente tre: applicazioni industriali, Power ed Oil & Gas, dove forniamo valvole di intercettazione ed indicatori di lievello.

2. Quali sono le cause principali della grave crisi che ha colpito l’azienda negli ultimi anni?
Fino al 2005 eravamo una azienda di piccole dimensioni, presente in diversi mercati con piccolissime quote che solo globalmente garantivano, a stento, la “massa critica” di sopravvivenza. In quel momento, si decise di intraprendere un ambizioso percorso di sviluppo che tuttavia, con il senno di poi, non fu supportato da risorse adeguate. Gli investimenti non sono stati sufficienti per i molteplici (probabilmente troppi) obiettivi che ci eravamo posti. Peraltro, non tutti  hanno portato i risultati sperati: le risorse inserite in azienda non sempre all’altezza della situazione, l’acquisizione di una azienda di valvole a sfera che non apportò reale valore ed infine l’attivazione di una propria piccola unità produttiva in Cina non in grado di apportare, per la piccola dimensione, alcun beneficio sostanziale. Costi senza adeguati ritorni. L’avvento della crisi ha fatto il resto.
 
3. Dal punto di vista della governance, Bonetti è una impresa ibrida, caratterizzata dalla contemporanea presenza di proprietà e management in posizioni chiave. Come valuta questo modello? Proprietà e management possono coesistere nella PMI?
Credo che nelle PMI non si possa prescindere dalla figura dell’imprenditore. Per quanto bravo, il manager non è un imprenditore, fa un altro mestiere. In questo tipo di aziende, la proprietà deve essere presente non soltanto in modo formale: deve avere la capacità di indicare la direzione, di definire la strategia, ed i manager devono essere dei “capi operativi” in grado di realizzarla. Questo modello funziona. Il modello contrario, con l’imprenditore che non esercita pienamente il suo ruolo (pur restando operativo) e delega parzialmente strategia e gestione ai manager, secondo me non funziona. E’ un modello equivoco che fa emergere le negatività caratteriali di tutti, senza garantire all‍’azienda una guida unitaria e chiara.

4. Veniamo ai giorni nostri: come nasce il rapporto con i partner indiani del gruppo Waaree che ha portato fino all’acquisizione?
Nasce da loro. Waaree è una società industriale nata trent’anni fa nel campo della produzione di manometri, con un mercato internazionale. Nel 2007 si propose come nostro agente. Dopo due anni di collaborazione senza risultati eclatanti, ci hanno proposto di costituire una joint venture commerciale di cui hanno chiesto e ottenuto la maggioranza. Dopo i primi successi, è si è deciso di costruire uno stabilimento produttivo in India per un investimento complessivo nell’ordine dei 20 milioni di euro. Con questa scelta, i nostri partners hanno in sostanza deciso di compiere il passo da azienda commerciale a produttiva nel mercato delle valvole. Da qui all’acquisizione della Cesare Bonetti, ormai in notevoli difficoltà, il passo è stato breve.

5. Dopo l’acquisizione, quali scenari è lecito attendersi? Vede il rischio di disperdere i valori in termini di risorse umane e tecnologie costruiti in oltre cent’anni di storia?
E’ proprio questa la sfida che personalmente sto cercando di portare avanti. La nuova proprietà è sufficientemente robusta dal punto di vista finanziario ed ha indubbie capacità imprenditoriali. Inoltre, dispone di validissime risorse manageriali, in termini di cultura e capacità. Noi dobbiamo essere bravi ad utilizzare queste risorse facendo gioco di squadra con i colleghi indiani. Insomma: noi abbiamo le competenze l’esperienza, loro le risorse umane. Dobbiamo essere capaci di mettere insieme in maniera virtuosa questi elementi, creando sinergie operative. Resistenze da parte nostra esistono, credo per un fatto essenzialmente culturale. La rigidità mentale in questa fase è pericolosissima. Teniamo presente che questo tipo di investitori non sono legati al territorio ed investono prevalentemente fornendo risorse umane e la loro potenzialità commerciale.

6. Non teme che, compiuta la formazione e “carpito” il know how, vi sarà dato il benservito?
Bisogna essere realisti: è possibile che l’epilogo sia quello, ma l’unica possibilità che abbiamo di evitarlo è quella di essere noi a pilotare questo processo. Qui in Italia, non ci dà niente nessuno. La nostra struttura italiana può essere salvata se, e soltanto se, la “alimentiamo” utilizzando al meglio queste risorse. Per il futuro, si vedrà. Sta a noi farci valere. In Italia abbiamo una capacità manifatturiera che non è così facile da assimilare e replicare, e una notevole flessibilità di approccio ai problemi.  Questi “plus” cercheremo di farli valere.

7. Sul fronte delle relazioni sindacali, quali difficoltà sta vivendo?
Notevoli, e ne sono sinceramente dispiaciuto.  Mentre la base è giustamente preoccupata per il posto di lavoro, i rappresentanti tendono a mediare gli interessi dei lavoratori con quelli delle proprie organizzazioni, peraltro mostrando un livello di competenza alle problematiche industriali non sempre adeguato (ed è un eufemismo). La prova? Abbiamo presentato il piano industriale e non è ci stato fatto il benché minimo rilievo o domanda. L’unica richiesta è stata quella di firmare una “carta rivendicativa”, cioè un accordo da stipulare direttamente con il sindacato (la Fiom), che di fatto andrebbe a scavalcare il contratto nazionale di lavoro. Evidentemente, qualcuno ha più interesse a guadagnare una benemerenza che non a progettare con la direzione il futuro dell’azienda, proprio in un momento nel quale ci sarebbe assoluto bisogno di fare fronte comune.

8. Un’ultima domanda: l’Italia di oggi appare un Paese “in saldo”, ideale per lo shopping di investitori stranieri. Ritiene che sia un fenomeno ineluttabile o il risultato di una storia di malgoverno? Con quale spirito dobbiamo vivere questa realtà?
Dal punto di vista del fenomeno, credo che sia inevitabile. Certo ognuno ha la sua storia: in Italia ci sono dei fuoriclasse capaci di restare saldamente al comando delle proprie aziende. Ma altrettanti, o forse più, per errori strategici o per la mancanza di un adeguato asse ereditario, sono destinati a soccombere o cedere il business. Che questo sia un po’ triste non c’è dubbio. Tuttavia, sono fermamente convinto che “essere comprati” non sia di per sé una catastrofe, ma al contrario che sia possibile mantenere un ruolo di primo piano. Ad una condizione: avere la capacità di prendere immediatamente “il pallino” della nuova struttura integrata, facendo valere la propria esperienza e know how. Questa può e deve essere la nostra sfida, e dall’esito di questa sfida dipenderà il nostro futuro.

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