Lo sappiamo bene, ci sono dei signori che periodicamente ci danno la pagella. Con una implacabile sigla di tre lettere, stabiliscono quanto siamo “sani”, quanto siamo affidabili, quante sono le nostre possibilità di superare la crisi o di sprofondare nel baratro del fallimento. Da almeno un paio d’anni, è tutto un rincorrersi di valutazioni al ribasso. L’ultima di Standard & Poor’s risale a pochi giorni fa: veniamo classificati a due soli gradini dal livello junk, cioè “spazzatura”.

Ad essere sincero, pur pienamente consapevole delle mille difficoltà in cui si dibatte questo nostro povero Paese, qualcosa non mi quadra. A cominciare dal “timing” degli interventi di declassamento: non avvengono in concomitanza di un oggettivo peggioramento del quadro macroeconomico del nostro Paese e nemmeno della situazione complessiva europea. Nell’autunno del 2011, tutte le agenzie di rating intervennero rivedendo pesantemente al ribasso la nostra valutazione (insieme a quella di altri Paesi europei), e ci poteva stare, alla luce della violenta “crisi del debito sovrano” e della fragilità palesata dalle istituzioni europee. Ma da allora cosa è cambiato in peggio? Perché questi ulteriori interventi a catena tutti in senso negativo? Le motivazioni ufficiali fornite “a corredo” dell’ennesima bocciatura non mi paiono convincenti: la crescita debole (o negativa), il debito alto, la situazione politica incerta sono elementi ben noti da anni e già incorporati abbondantemente nei modelli.

In uno sforzo di approfondimento, incrocio un’intervista illuminante rilasciata pochi mesi fa da un signore di nome Alexander Kockerbeck, capo analista di Moody’s per l’Italia fino al luglio del 2012. A detta di Kockerbeck, a partire dalla crisi del 2011 le agenzie di rating hanno deciso di dare un peso sempre crescente, nelle loro valutazioni, ad un fattore che potremmo definire “il nervosismo dei mercati”. Il ragionamento è il seguente: quando i mercati finanziari sono “nervosi” (per motivi anche diversi dalla situazione oggettiva dell’economia di un Paese), aumenta il rischio che quel Paese possa avere difficoltà a collocare i titoli del suo debito pubblico (il cosiddetto fund raising). L’aumento di questo rischio aumenta il rischio di insolvenza del Paese e quindi fa scattare il declassamento da parte dell’agenzia di rating. Questo approccio può determinare un “circolo vizioso” potenzialmente fatale, spiegato chiaramente dallo stesso analista: “Io mi metto davanti ad un investitore e gli dico: secondo me c’è il pericolo che voi non compriate più i Btp italiani, e siccome vedo questo rischio, allora declasso l’Italia di molti gradini. A quel punto gli investitori pensano: siccome l’Italia viene retrocessa, noi i Btp non li compriamo più… ecco la circolarità che può causare una spirale distruttiva.”. Ad onore della cronaca, Kockerbeck espresse a chiare lettere il suo totale disaccordo con questo approccio, ma fu messo in minoranza.

Una storiella davvero inquietante. Il nervosismo dei mercati (tra l’altro, parliamo di quelli internazionali) può essere determinato da tante situazioni. Ed ecco allora che una fibrillazione in Portogallo, uno scandalo in Spagna, una manifestazione violenta in Grecia, una tornata elettorale in Germania potrebbero determinare le condizioni per attivare la spirale perversa del rating. Come si può contrastare tutto questo? In sede europea si sta studiando una normativa che vada a regolamentare a fondo l’operato delle agenzie, e speriamo si faccia molto in fretta. Parallelamente, occorre una grande consapevolezza e maturità degli investitori, e soprattutto dei professionisti del risparmio, nel mantenere il sangue freddo e non farsi troppo condizionare da queste valutazioni. Ed infine, per fare anche un po’ di autocritica, evitare di farci del male da soli, martellandoci gli attributi con delle vicende vergognose che devastano la nostra immagine a livello internazionale: dal caso italo-kazaco alle farneticazioni pietose del padre del porcellum.

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