“Tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva.  Il sistema tributario è informato a criteri di progressività.”. Così recita l’art. 53 della Costituzione, ma a questo principio non pare proprio essere ispirato il nostro sistema fiscale. Il criterio di progressività, secondo cui chi ha di più deve dare di più, è sottoposto da oltre quindici anni ad una strabiliante eccezione che colpisce imprese e professionisti : l’IRAP.

Introdotta nel 1997, per sopperire all’eliminazione di altre otto imposte, l’IRAP colpisce il “valore della produzione aziendale”, inteso come risultato della differenza tra i ricavi ed i costi tipici dell’attività. Peccato che, tra i costi deducibili, non siano “riconosciuti” né il costo del personale dipendente e dei collaboratori (se non in minima parte) né gli oneri finanziari sostenuti per ottenere il credito bancario necessario a sopravvivere. Qual è la logica in tutto questo? Non esiste. In tempi di vacche magre come l’attuale, se un’azienda ha scarsa redditività, ma un discreto numero di dipendenti e finanziamenti bancari da onorare, fronteggerà questa autentica aberrazione: un risultato economico interamente inghiottito dall’IRAP, che fa salire la percentuale di tassazione a proporzioni indegne per un Paese civile. Capita di frequente, in caso di redditi modesti, che l’incidenza fiscale arrivi al 120, 150, anche 200% dell’utile. E quindi che l’azienda “vada in perdita per le tasse”. O anche peggio: che un’azienda già in perdita, dovendo comunque pagare l’Irap, riceva il colpo di grazia. E si debba magari indebitare con le banche solo per pagare le tasse. Follia pura: quando si cerca di spiegare il feonomeno ad amici e colleghi stranieri, pensano che tu li stia prendendo in giro.

Ciò non ha solo effetti depressivi sul conto economico della singola azienda, ma contribuisce a fomentare un senso di rabbia e crescente contrapposizione tra il cittadino e lo Stato, spinto a legittime considerazioni catastrofiste, quando non alla resa o all’espatrio. Per non parlare degli effetti nefasti sull’occupazione. È pur vero che l’Irap è linfa vitale per le Regioni, le quali utilizzano questo tributo per il sostenimento della spesa sanitaria. Ma questo, se possibile, è un ulteriore elemento di riflessione e di recriminazione per il mondo produttivo, dato l’elevato livello di inefficienze, già trattato sul nostro blog, registrato in quell’ambito di intervento pubblico.

Il collaudato disincanto con cui osserviamo i fenomeni economici ci insegna che le manovre sui tributi si fanno sempre a costo zero, o più spesso con un vantaggio per lo Stato. Ed allora, in attesa che si metta seriamente mano alla spesa pubblica, perché non procedere almeno ad una seria revisione del sistema tributario, che ripristini quantomeno il principio costituzionale della capacità contributiva? In quest’ottica, perché non ridurre drasticamente l’Irap, sostituendola con le normali imposte progressive sui redditi d’impresa? E’ chiaro che queste ultime sono state ridotte al 27,5% per pura demagogia, ma nel concreto prosegue e cresce l’avvilimento di chi fa impresa. E’ necessario, ogni tanto, tornare ad affermare con forza un nostro mantra: la crescita la fanno le imprese!

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