Siamo sempre più longevi! Grazie anche ai farmaci che le case farmaceutiche ci forniscono per il nostro bene. Ma anche, e soprattutto, per il loro. Il fatto è comparso sui giornali pochi giorni fa: si tratta di due farmaci che, secondo studi approfonditi, risultano sostanzialmente equivalenti per la cura di certe patologie della retina. Piccolo particolare:  il Lucentis, prodotto da Novartis, costa 50 volte di più dell’Avastin, prodotto da Roche. In cifre la differenza è impressionante: 750 euro contro 15. Negli ospedali pubblici italiani si prescrive, quasi ovunque, il Lucentis, con un maggiore esborso per le casse dello Stato di 400 milioni di euro l’anno. L’Antitrust ha opportunamente avviato un’inchiesta.

Ho lavorato per tanti anni nel settore e posso affermare che niente si muove nel farmaceutico prima di un’attenta ricerca di mercato. La malattia è rara ancorchè importante? Non interessa, niente ricerca. La malattia è frequente e cronicizzante? Va bene, ricerca avanti. L’industria farmaceutica non ha certo vocazioni umanitarie, come ricordano i soliti stockholders che battono cassa ogni trimestre. Ma negli ultimi decenni, dopo gli scandali De Lorenzo e Poggiolini, che avevano istruito procedure per cui venivano autorizzati aumenti di prezzo ed ingresso nel prontuario sanitario di alcuni farmaci dietro compensi e regalie, anche il farmaco ha diminuito la sua redditività: l’attenzione del Ministero per il prezzo e dei media per l’impatto sociale hanno portato alla commercializzazione dei “generici” e alla conseguente riduzione dei margini di molti farmaci di marca. Le case farmaceutiche si sono ritrovate strette fra le politiche ministeriali e gli stockholders assetati di risultati.

Nascono così nuove strategie per mantenere ed accrescere i profitti. Ricordiamone alcune. Registrare farmaci in fascia C, ovvero non rimborsabili dal SSN: in questo modo, il prezzo proposto dalle Case all’Amministrazione è più facile da ottenere e soprattutto si possono fare aumenti negli anni successivi. Ancora, il farmaco tradizionale viene modificato di un niente, o magari si aggiunge qualcosa che, si dice, lo rende più sicuro ed efficace: e così diventa “neo” con un prezzo “neo”. Oppure si punta su nuovi farmaci, frutto di una biotecnologia così sofisticata che non permette copie, ma prezzi da monopolio. Ultima leva, si agisce sul medico, che invita il paziente a prendere proprio quel farmaco di marca, e non altri. Questo fenomeno, noto come “comparaggio”, rappresenta una vera e propria piaga sociale e morale. La creatività e l’immaginazione non hanno limiti per alimentarlo, proprio come le fauci di chi lo accetta.

Che fare allora per contrastare queste opacità? Credo si dovrebbe agire a vari livelli. A livello di politiche pubbliche, si potrebbero agevolare le aziende che fanno ricerca, introdurre parametri non opinabili per definire il corretto prezzo del farmaco, definire regole serie e stringenti per abbattere qualsiasi forma di comparaggio. A livello di industria, sarebbe auspicabile un segnale di buona volontà, mettendo qualche limite agli investimenti promozionali (numero dei collaboratori scientifici, materiali cartacei e digitali, saggi gratuiti, viaggi e partecipazioni a congressi, e… altro) a favore della ricerca. A livello dei medici, l’Ordine dovrebbe forse vigilare con più attenzione sui comportamenti dei suoi iscritti, e far osservare regole semplici e chiare volte alla massima trasparenza e correttezza. Infine, a livello dei pazienti, non abusare dei farmaci ed non diffidare dei generici. Insomma, curarsi a costi inferiori deve assolutamente essere possibile, con il concorso e l’impegno di tutti.

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