Avete notato che si parla molto più adesso di programmi che prima delle elezioni? Sia da parte della politica che della stampa. Prima, si discuteva soltanto di rimborso dell’IMU e poco più. Adesso tutti scatenati a confrontare febbrilmente i “papelli” programmatici alla ricerca di improbabili alleanze, con tanto di paginoni comparativi sui vari giornali.

Ieri mi cade l’occhio, per l’ennesima volta, su un tema assolutamente cruciale per la nostra economia: la riduzione del debito pubblico. Come ben sapete, ha raggiunto l’impressionante dimensione del 126% del Pil ed in qualche modo occorre intervenire. Scorrendo le proposte delle principali forze politiche, la prima ricetta indicata da tutti è immancabilmente la stessa: la “dismissione” (cioè la vendita) del patrimonio pubblico. Alcuni sono più radicali: venderebbero in dosi massicce sia il patrimonio immobiliare che le partecipazioni nelle aziende pubbliche (Eni, Enel, Finmeccanica, ecc.); altri, un po’ più cauti, parlano di “dismissioni selezionate”, ma le cifre indicate sono comunque molto consistenti. Insomma l’idea che passa è: per ridurre i debiti, vendiamoci i beni di famiglia e il gioco è fatto.

Devo confessarvi che questo approccio mi lascia molto freddo, per varie ragioni di ordine pratico ma anche perché, a mio avviso, è fondato su un presupposto logico sbagliato. Cominciamo con le ragioni pratiche. La prima: vi immaginate cosa può voler dire tentare di vendere pezzi del patrimonio immobiliare in un momento come questo? Se anche si trovasse un acquirente, è certo che i prezzi sarebbero da saldo e stralcio. Stessa cosa (o forse persino peggio) dicasi per le partecipazioni nelle società pubbliche, che finirebbero in mani straniere a prezzi da fine stagione. La seconda ragione è di ordine “tecnico”: la maggior parte degli immobili sono in mano ad enti locali, che molto difficilmente possono essere indotti a vendere. La terza ed ultima non è una certezza, ma un forte e credo legittimo sospetto: di inciuci, di favori, di tangenti nelle operazioni di vendita.

Ma c’è anche un motivo logico, prima ancora che economico, a corroborare il mio scetticismo. Cerco di spiegarmi con due domande banali, ma forse più utili di tanti discorsi. Prima domanda, rivolta a tutti gli imprenditori e uomini d’azienda: se la vostra impresa avesse un conto economico in perdita (spese maggiori delle entrate, come l’azienda Italia da anni e anni), e un forte indebitamento accumulato, come prima cosa cerchereste di vendere parte dell’attivo (fabbricati, macchinari, magazzini) o piuttosto di portare in pareggio il conto economico? Seconda domanda, rivolta a tutti: se una moglie scoprisse che il marito si è coperto di debiti non solo per le spese familiari, ma anche con il gioco d’azzardo, non dovrebbe forse stoppare immediatamente i dissennati comportamenti del marito, prima di tentare faticosamente di vendere i mobili di casa?

E allora torniamo ancora una volta al vero problema della finanza pubblica italiana: prima di vendere (o svendere) i beni pubblici, che sono un patrimonio di tutti i cittadini, bisogna fare tutto il possibile per l’abbattimento della spesa pubblica. Cosa che, ad oggi, siamo ben lungi dall’aver fatto! In mancanza di questo, il debito continuerà a rigenerarsi, e l’immissione di qualche provento immobiliare sarebbe come gettare acqua in un secchio bucato. Proprio a questo tema, la riduzione della spesa, vogliamo dedicare uno spazio specifico questa settimana aperto alle proposte concrete dei nostri lettori. Non mancate!

 

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