Mai come oggi, la scelta di fare l’università deve fare i conti con la ristrettezza economica delle famiglie. Questione di realismo. Senza un supporto familiare, solo tra mille difficoltà lo studente riesce a conciliare studio e lavoro, spesso part-time e sottopagato. Si rischia di andare fuori corso (33,6% degli studenti nel 2011) e non riuscire ad inserirsi in un mercato del lavoro che è molto competitivo, in cui l’età rappresenta una variabile importante.

Lo stesso realismo coinvolge il giovane. Quanto vale la pena intraprendere un percorso impegnativo se poi non si ha la ragionevole certezza di un ritorno economico adeguato? I modelli proposti da talk show e reality televisivi possono ingenerare l’idea che vi siano altre strade verso il successo, seppur effimero. E non serve un attestato ed anni di studio per fare lavoretti o consulenze in nero che nell’immediato possano garantire introiti maggiori di quelli di un neolaureato assunto. Non per nulla l’Italia è la prima nazione europea per sommerso (21,4% del PIL secondo recenti ricerche).

Lo Stato, d’altra parte, investe sempre meno nell’istruzione universitaria, e questo non aiuta. Il corpo docente universitario si attesta a 15.500 unità (riduzione del 22% in 6 anni) e le risorse destinate agli atenei attraverso il Fondo di finanziamento ordinario subiscono sforbiciate di anno in anno (riduzione del 20% nel 2013 a 6,6 miliardi di Euro). A questo riguardo vorrei ricordare un’esperienza personale: il mio barman preferito, quello che mi preparava un Long Island dolce e non aspro, di quelli che piacciono a me, era l’assistente di un professore universitario, scriveva diversi saggi e partecipava a convegni internazionali. Ammetteva che era quel lavoro da barman a mantenerlo. Quando seppi da altri che aveva ceduto alle lusinghe lavorative di una multinazionale, mi resi conto che l’università aveva perso un suo degno rappresentante ed io il mio miglior Long Island.

Il mercato del lavoro richiede ancora tecnici informatici, ingegneri, statistici, matematici, manutentori, installatori di impianti. Tuttavia, secondo le elaborazioni di Confindustria Education su dati Eurostat, vi è un surplus di offerta di laureati in discipline politico-sociali, letterarie, architettura e psicologia. Il mismatch  tra domanda e offerta di figure professionali permane alto. L’obiettivo dovrebbe essere quello di orientare l’offerta formativa alle reali esigenze delle aziende. Dopo tutto ciò, non ci si può stupire se le matricole universitarie sono diminuite del 17% in un decennio, a circa 280.000 nel 2011/2012. E ora siamo terzultimi per numero di laureati tra i membri Ocse (15% rispetto ad una media del 31%), con grave danno alla nostra capacità di competere attraverso l’innovazione.

Le soluzioni proponibili sono diverse: ridurre il carico contributivo per l’impresa che assume un giovane; immaginare un percorso di studi che preveda una maggiore collaborazione scuola-impresa (per certi versi simile all’apprendistato, mai decollato); sovvenzioni o finanziamenti agevolati agli studenti durante il loro periodo di studi. In Alto Adige, dove la disoccupazione giovanile è al 11,5% contro il 36% a livello nazionale, è ben radicata la collaborazione scuola – impresa, soprattutto per l’istruzione professionale. Entrare rapidamente nel mondo del lavoro e seguire un percorso formativo in azienda, lascia comunque la possibilità, in un secondo momento, di perfezionarsi con corsi di studio mirati di livello superiore. Mi pare un approccio intelligente e pragmatico, un modello portatore di buoni frutti che si potrebbe ampliare su scala nazionale.

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