Continuiamo la rassegna sui miti e sulle verità dei Paesi Emergenti. Si sa, “chi non risica non rosica” ed è pertanto coerente l’imprenditore che guarda a quei Paesi. Tuttavia, come evidenziato nella prima parte, prima di incamminarsi lungo la “Via della Seta” può essere utile leggere gli errori di altri imprenditori che hanno preceduto. Bene, accantoniamo le parole e torniamo alla realtà concreta e all’esame dei miti in circolazione.

“Il mio prodotto è superiore e sarà apprezzato”.  Mezzo mito.  Un buon prodotto è certamente apprezzato più di un cattivo prodotto. Tuttavia ciò che è considerato buono nella cultura d’origine, potrebbe non essere così buono nella cultura di destinazione. Solo una parte del successo di un prodotto è guidata dalla qualità, lo sanno bene le aziende del tessile veneto che, quando la rete distributiva principale ha cambiato padrone, si sono trovate con gli ordinativi quasi azzerati dal giorno alla notte. Inoltre, anche il prodotto migliore può essere contraffatto o ancor peggio, adattato dai terzi alla cultura locale con limitati spazi per far valere la proprietà intellettuale. Anche un prodotto superiore può avere bisogno di qualche adattamento per renderlo completamente adeguato al mercato di destinazione. Infine, i maggiori tassi di crescita producono maggiore variabilità delle preferenze dei consumatori con l’effetto che quello che piace oggi potrebbe non piacere più domani.

“Posso fare tutto da me”.  Mito. L’imprenditore italiano ha indubbiamente alcuni vantaggi rispetto agli altri imprenditori in quanto è più consapevoli che esistono per esempio la malavita, la corruzione, gli interessi corporativi. Inoltre, è “sa arrangiarsi” e pertanto si documenta, prova, discute, contratta, osserva, si ingegna; qualità preziose nei Paesi Emergenti. Tuttavia, fare da se ha i suoi rischi. I principali Paesi Emergenti hanno superato la fase di venerazione per i Paesi Sviluppati e, in parte memori della dominazione colonialistica, non vedono sempre di buon occhio l’occidentale. Inoltre, è bene ricordare che l’informazione è vischiosa e poco trasparente e quindi la popolazione locale ha dei vantaggi di posizione per tutelare i suoi interessi. Infine, c’è molto da imparare dalla popolazione del luogo, si pensi ad esempio alle modalità organizzative o di vendita che qui funzionano, ma che potrebbero dimostrarsi fallimentari se trapiantate tout court in quelle culture.

“Il governo centrale mi appoggia, vado”.  Attenzione. Se il governo centrale del Paese – obiettivo vi appoggia non vuol dire che riuscirete a svolgere la vostra attività in modo efficace e vincente. L’appoggio governativo non è garanzia di successo. Tanto più che i governi si alternano e le personalità politiche possono essere rimosse da scandali o colpi di stato. Inoltre, l’appoggio del governo centrale non è garantisce il sostegno del governo locale né tanto meno del “sistema parallelo” il cui avallo è, purtroppo, talvolta più importante di quello offerto dai poteri ufficiali.

“I miei consulenti lavorano per una importante società di consulenza internazionale, mi fido”. Occhio. Per bravi che possano essere, alla fine il capitale lo mette a rischio l’imprenditore. Quindi, è importante distinguere il valore informativo della consulenza dalle decisioni strategiche. Inoltre, ai consulenti internazionali, pur portatori di una pluralità culturale, possono sfuggire preziose informazioni soprattutto se fanno poco ricorso alle fonti informative locali. Meglio combinare un buon consulente internazionale con qualche consulenza fidata a livello locale e ricordarsi che per evitare brutte sorprese può essere utile immergersi di persona nella cultura del luogo e entrare in contatto con persone di fiducia che potranno in un momento successivo relazionarsi con i vostri dipendenti e i soggetti terzi.

“L’importante è farsi conoscere e vendere”.  Vero a metà.  Attenzione, vendere è importante, ma a poco serve se si tratta di vendite-spot, magari perché il prodotto è buono ma l’organizzazione della post-vendita è carente, perché non erano stati ben quantificati i tempi di spostamento, oppure perché gli incentivi al risultato non erano allineati con le attese della forza lavoro: applicare con la carta copiativa i processi della propria realtà può trasformarsi in un boomerang. Infine, il “vendere per vendere” può portare a proporre nel mercato di sbocco tutta la gamma di prodotti quando invece potrebbe essere saggio procedere in modo graduale, introducendo alcuni prodotti e, in base al risultato, valutare se ampliare la gamma.

“Parto dall’India e se non va cambio”.  Mito.  L’investimento nei Paesi Emergenti non è “mordi e fuggi”. L’espansione in questi mercati procede a tappe. Le aziende di medie-grosse dimensione prima di raggiungere risultati tangibili hanno investito con continuità per molti anni. Come in Italia, anche lì le relazioni e la fiducia sono fra le determinanti del risultato ed il tempo è necessario per avvicinare culture così diverse e fra di loro lontane. Il capitale umano ed il capitale investito che si è acquistato con tanto sudore ha notevole valore e l’abbandono del campo rappresenta una perdita secca al quale si aggiungono i costi di rilocalizzazione.

In conclusione, l’espansione “strutturale” (non la mera vendita…) nei Paesi Emergenti richiede attenta conoscenza del contesto economico, sociale e culturale, approfondita valutazione strategica (progressività, piano B, exit strategy), conoscenza dei meccanismi politici a livello centrale e locale, rispetto (almeno formale) della cultura di destinazione, una certa flessibilità accompagnata da pragmatismo e progressività. L’imprenditore esporta innovazione di processo e di prodotto con spirito capitalista e non colonialista; l’impiego di referenti locali purché di fiducia rappresenta un fattore spesso determinante. Quanto raccolto nei due blog è solo la punta dell’iceberg, spero di aver contribuito a rompere il ghiaccio per una riflessione / discussione comune su una materia così complessa e affascinante.

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